Cloe Piccoli, la Repubblica 9/1/2011, 9 gennaio 2011
L´INCONTRO
FIRENZE - Tutto di lui è estremamente inglese: l´accento, gli occhi azzurri, la carnagione chiara. È vestito con jeans, maglione e giubbotto da biker, come te lo immagini alla fine degli anni Ottanta quando da Leeds arriva a Londra per ribaltare il panorama artistico. Eppure oggi, Damien Hirst, ex manovale, ex studente del Goldsmiths College alla London University, è fra gli artisti più noti e quotati al mondo, fra gli inglesi più ricchi in circolazione. Il che non lo sposta di un millimetro dall´essere fedele a se stesso. L´arte per lui viene sempre prima. «Essere un artista non è un lavoro. Non è finzione. Lo sei e basta. Forse i lavori migliori gli artisti li producono nei periodi più duri, quando nessuno li considera. Quando devi imparare a convincere gli altri che quello che fai vale la pena di essere guardato».
Inquadrato dal camino di marmo del Duca Cosimo I de´ Medici nella Sala degli Elementi affrescata dal Vasari a Palazzo Vecchio, Damien Hirst si racconta. «Quando sei un artista affermato puoi fare quello che vuoi» dice, «ma devi stare attento a non perderti perché tutti dicono che tutto quello che fai è magnifico, e non è vero». Ci pensa e poi aggiunge: «Può non essere vero. I grandi artisti devono essere in grado di cambiare, di non fermarsi mai. I miei eroi sono Francis Bacon, Willem de Kooning, Joe Strummer, gente che non si è mai arresa».
Parla un inglese sincopato, e quando il discorso cade su temi universali come la vita e la morte, sdrammatizza con una battuta. In fondo è quello che fa nei suoi lavori: distillare temi universali in forme ironiche e provocatorie. Il suo sense of humour è caustico e spiazzante, è un potente antidoto a una visione tragica. Se lo segui, ti conduce in un cortocircuito affascinante scandito dal contrasto fra luci e ombre. Come quello creato dal teschio di diamanti, For the Love of God, esposto nella camera del Duca di Palazzo Vecchio, dove l´unica fonte di luce si rifrange nelle pietre preziose. «Il teschio è sempre stato un oggetto enigmatico, molto semplice ma allo stesso tempo disorientante. Ho una casa in Messico, e negli ultimi anni ne ho visti moltissimi dato che lì celebrano il giorno dei morti con processioni di teschi decorati. Sono ovunque. Ho sempre pensato che la decorazione è una grande cosa da usare contro la morte. Per questo mi sono chiesto: cosa potrei usare? Qualcosa di esageratamente decorativo, sgargiante, brillante. La risposta è stata: i diamanti più puri».
Ne ha scelti 8.601 per 1.106 carati. «Il teschio è qualcosa di dark. Isn´t it?», riflette. «Ma è anche brillante. Positivo. Ti dà una speranza. La morte non ti avvisa, non aspetta che tu abbia un giorno libero. Se ti chiedono di andare a pranzo la settimana prossima forse è meglio dire che non sei sicuro perché non sai mai quando arriverà il momento». Ride.
Il discorso slitta veloce fra pensieri seri e battute di spirito, in fondo ancora più serie. Hirst procede per intuizioni, lucide e precise, che distilla con ferrea determinazione nelle sue opere. A iniziare da una delle prime, quella che l´ha reso famoso, lo squalo, intitolato con un concetto molto chiaro: The Physical Impossibility of Death on the Mind of Someone Living. «Il mio primo pensiero è stato al film Lo squalo di Spielberg, solo a pensare allo squalo ero terrorizzato, gli uomini sono terrorizzati quando sono nel mare con uno squalo perché non hanno il controllo. Volevo portare uno squalo in galleria. Ma era impossibile. Ho iniziato a pensare come fare. Volevo creare terrore». Fa una pausa e dice: «Ha presente le sculture di Richard Serra? Quando ci camminavo in mezzo da ragazzo avevo sempre il terrore che mi franassero addosso uccidendomi». Scherza di nuovo.
«A un certo punto volevo fare un quadro iperealistico dello squalo. Ma non funzionava. Poi ho pensato di portarne uno vero, in formalina. Il più grande e terrorizzante che fossi riuscito a trovare. A quel punto si apriva la questione di dove andarlo a prendere. Ho fatto ricerche su ricerche. Ho stilato una lista dei migliori pescatori di squali dell´Australia. E poi ho scelto quello che mi sembrava più promettente. Gli parlavo al telefono ogni giorno. Volevo sapere se l´aveva trovato, se era riuscito a pescarlo. Alla fine l´ho comprato, al telefono per seimila sterline, e me lo sono fatto spedire a Londra. Cinque metri di squalo».
È il 1991, Charles Saatchi, il pubblicitario, collezionista, compra il lavoro e lo espone alla prima mostra della Young British Artists Generation con i lavori di tutta quella tornata d´artisti del Goldsmiths, facendo la loro, (e la sua), fortuna. Il resto è storia. «La mostra scatenò polemiche su polemiche, non si può immaginare. Eravamo contenti perché c´era anche un grande entusiasmo. Io presentavo lo squalo che ha avuto un effetto che è andato persino oltre le mie (notevoli) aspettative».
Con lo squalo parte un volano di critica, pubblico, gallerie, musei. Nel 1997 Sensation alla Royal Academy di Londra consacra Hirst e l´intera generazione da Tracy Emin a Sarah Lucas a suon di proteste e manifestazioni, che ne amplificano il glamour e le code fuori dal museo. «Il titolo dello squalo serviva a descrivere uno sguardo, un´intuizione, un pensiero. Era un modo scientifico per descrivere qualcosa che non si può descrivere. A quell´epoca ero molto scientifico, volevo isolare i sentimenti... La scienza mi ha sempre affascinato. Per molto tempo ho letto solo libri scientifici, volevo fatti. Non mi interessava la letteratura».
Persino il suo studio di Londra, dove lavorano centoventi persone, si chiama Science. «Ho costruito uno studio come una specie di fabbrica farmaceutica», spiega. E poi ha fatto anche un ristorante arredato come una farmacia per cui ha disegnato ogni cosa: The Pharmacy, per cinque anni, (il periodo in cui è stato aperto), il posto cool di Notting Hill. Ma la sua passione per l´estetica medica risale a molto prima, ai Cabinets, le vetrine che Hirst crea fin dai tempi del college.
«Quando sono arrivato al Goldsmiths amavo i lavori di Donald Judd e Sol Lewitt, ero affascinato dall´estetica minimalista, così essenziale, pulita, netta, mentre intorno a me vedevo una comunicazione sparata, pop, sgargiante, una pubblicità orribile e aggressiva. La medicina, invece, aveva un´estetica così minimale, controllata e bella, ti offriva una speranza, sia nella sostanza che nella forma. Per molto tempo ho desiderato fare arte con quell´estetica. Poi quando ho visto gli aspirapolvere di Jeff Koons nelle vetrine ho pensato: ok è lì, basta farlo. Basta prendere i medicinali e metterli in galleria e così ho fatto».
Hirst è sintetico e diretto, ha un´energia straordinaria, contagiosa, snocciola lavori, incontri e scontri, eccessi e svolte. Parla dell´ultima svolta, quella più recente, il ritorno alla pittura. «Da giovane, prima del college, facevo dei brutti Bacon. Poi ho smesso. I quadri con i punti, gli Spot Paintings, li dipingono i miei assistenti. Ma ora mi sono messo a dipingere. Forse sono più tradizionale, faccio cose totalmente diverse, mi piacciono pittori espressivi come El Greco, Pontormo, Goya, Soutine, Rembrandt. E Francis Bacon, sempre più di tutti. Forse alla fine della mia vita finirò a dipingere da solo, senza assistenti, completamente sordo...». Ride di nuovo.
«Il punto è che si cambia, pensi che ora, a quarantacinque anni, inizia a piacermi la fiction, la narrativa, e la narrazione. La pittura è narrazione, e mi piace. È esattamente il contrario di ciò che pensavo dieci anni fa. I Cabinets oggi mi sembrano vecchi, le medicine sono cambiate ed è cambiata l´estetica delle medicine». È spiazzante come al solito. «Comunque continuo ad avere idee pazze», rassicura, «come fare un apparecchio per la Tac in marmo».
La sua logica non fa una grinza, e lui sa perfettamente dove sta andando. L´ha sempre saputo. Verso l´arte. Da quando può permetterselo la colleziona persino: ha cinque Bacon, fra cui un autoritratto, che adora, e poi de Kooning, Warhol, e moltissimi altri artisti. Ultimamente, ha ricomprato a suon di milioni alcune sue opere vendute vent´anni fa a poche centinaia di sterline «L´arte riguarda l´esserci, qui e ora. Cogliere il giorno. Cercare di cogliere la parte migliore del giorno». Cinico ma romantico. Ottimista e melanconico. «Non penso alla melanconia, provo a evitarla, ma la grande arte ha una venatura melanconica, è qualcosa che viene dopo, tu non la progetti prima, solo che c´è. Quando ho fatto la pecora in formalina la prima cosa che hanno detto è stata che era disgustosa. Nessuno ha pensato alla melanconia, che fosse un lavoro triste e tragico, ma in fondo c´era anche quello. E c´era nei quadri con le farfalle, anche se sono così sgargianti e colorati».
Per Hirst la melanconia annuncia il cambiamento, una condizione da cogliere al volo, senza paura. «Non sai mai quando arriverà, ma quando cambi ti senti bene, ti senti sicuro, anche se la gente intorno a te non ci crede e dice che i tuoi lavori fanno schifo. Quando ho iniziato a lavorare con Jay Joplin di White Cube mi diceva "amo il tuo lavoro ma perché fai quegli stupidi Spot Paintings?". Tutti mi dicevano "ma perché fai i punti? Richter fa i quadrati e tu fai i punti". Ora Jay mi dice "ho sempre amato i tuoi Spot Paintings …"».