CESARE MARTINETTI, La Stampa 13/1/2011, pagina 1, 13 gennaio 2011
MIRAFIORI, IL GIORNO CHE DECIDE TUTTO
La vede questa guancia? Qui s’è posata la mano di Peppino Di Vittorio». Capita così dalle parti di Mirafiori. Ogni faccia si porta dietro una storia operaia. Prendiamo questo signore che alle 9 del mattino è sul mercato di piazza Bengasi a distribuire il volantino firmato SPI-Cgil: No all’accordo! Uno si ferma, scambia due parole e si spalanca un mondo.
Era il 29 novembre 1949, io avevo 11 anni, mio padre era in galera con altre decine di braccianti per uno sciopero e mia madre era disperata. Eravamo al mio paese, Torremaggiore in provincia di Foggia. Il segretario della Cgil Di Vittorio è venuto, ci ha incontrato e rincuorato. Io ero vicino a mia madre e la sua mano si è posata qui, su questa guancia...».
Il «compagno Padalino», come lo chiamano gli altri che volantinano, è ora un signore di 72 anni. Ne ha passati 34 in Fiat, reparto Carrozzeria, dal ’56, quando è arrivato a Torino, fino al ’90, quando è andato in pensione. Prende 1.200 euro al mese. «Quando sono entrato in fabbrica, la prima cosa che mi hanno detto è stata: qui non si parla di politica. I capi li chiamavano “barbisin”, baffettini, ci parlavano in torinese, mi dicevano “brav fieul”, bravo ragazzo. Si entrava alle 6 e la prima pausa era alle 10 meno 10. Chi non ce la faceva si teneva una bottiglia tra i piedi per fare pipì». Non si parlava di politica ma si festeggiava il 25 aprile. Il «compagno Padalino racconta in una lingua-gramelot impastata di pugliese e torinese, tre quarti dell’uno, il resto dell’altro. Pronuncia perfetta, almeno per il torinese: «La Fiat, triste e cara, è stata la mia vita: ero alla linea della 600, stavo sotto la scocca, dovevo alzare il mozzo: 28 chili. Alla sera non sentivo più le braccia, ancora adesso dormo con le mani alzate, come se dovessi arrendermi... Ho visto le prime vertenze, la firma separata della Uil nel ’62, il ’68, gli Anni 70 quando scoprimmo che il compagno D’Amore, delegato delle Presse, era un brigatista. Eppure sembrava così discreto e gentile...».
All’una meno un quarto, al bar Liberty di corso Agnelli, Domenico F. aspetta l’ora di entrare. Anche lui è alle Carrozzerie, montaggio della Mito. Ha 47 anni, è in Fiat dall’87, ha cominciato come operatore di pedana, adesso è «team leader». Un capo? «No». Non è un ruolo gerarchico, perché i capi restano capi, ma un ruolo di competenza: vuol dire che sa fare tutti i lavori della linea. È piemontese, di Nichelino, padre, mamma e fratello operai, ha due figli, uno di 18 che sta imparando a diventare fresatore, l’altro di 20 che si è appena iscritto a Economia: «È dura, ma potevamo dirgli di no?».
Il «team leader» Domenico F. non è iscritto a nessun sindacato, come più della metà degli operai delle Carrozzerie. Prende 1.200 euro di salario al mese. Voterà sì perché quando glielo chiediamo lui si guarda intorno, la «palazzina» è davanti a noi, arrivano i pullman che portano gli operai, ascolta l’aria del cambio turno, sente il mondo che si muove intorno alla grande fabbrica e dice: «Ma si può immaginare che tutto questo non ci sia più? E cosa facciamo noi? Per me la Fiat è la vita: pochi mesi dopo che mi avevano assunto mi sono sposato e non l’ho mai tradita». La moglie? «E nemmeno la Fiat. Ma nemmeno lei ha mai tradito me. Vinceranno i sì, certo». E se c’è da lavorare la notte? «Io la notte non l’ho mai fatta ma se c’è da fare sono pronto. D’altra parte è cambiata la vita per tutti. Domenica scorsa sono andato con mia moglie al centro commerciale e ci dicevamo: questi qui lavorano anche la domenica, potrebbe capitare anche a noi».
Quando è arrivato in fabbrica, come il «compagno Padalino», anche il «team leader» Domenico F. faceva l’operatore di pedana e montava i motori in catena sotto la scocca manovrando un «motorino» che pesava dieci chili. E la sera anche lui andava a dormire e aveva le braccia che gli tremavano. «Adesso tutto è cambiato: l’operaio manovra il “partner”, un braccio meccanico: né 28 né 10 chili, qualche etto appena. Quando sono entrato il pavimento era fatto di mattonelle di legno ricoperte di catrame; adesso non dico che ci potremmo mangiare sopra, ma quasi».
Il «team leader» Domenico F. dice che lui ha una sua idea sulle scritte con la stella a cinque punte comparse l’altra sera in corso Sommeiller. Ma non ce la dice. Il terrorismo non lo ha mai conosciuto, le «brigate», come le chiama, le ha viste solo in tivù, ancora l’altra sera, a Rai-storia. Al lavoro mai sentito niente di simile: «Si discute, ognuno ha la sua idea, ma niente di più»
La grande fabbrica non regola più l’ora della città, ma divide ancora. Il gigantesco santuario di Mirafiori lungo i suoi undici chilometri di perimetro presenta un’aspetto multiforme e inafferrabile. I grandi piazzali dove Lama, Carniti e Benvenuto trent’anni fa vennero a spiegare la sconfitta dei «35 giorni» hanno ora un aspetto anonimo, non sembrano nemmeno più la Fiat. Alla porta 7, dove Giorgio Benvenuto disse «O molla la Fiat o la Fiat molla» e dove poi si prese le ombrellate in testa scortato da un giovane operatore della Quinta Lega che si chiamava Dario Di Vico (ora editorialista del Corriere della Sera) sembra un altro mondo. Sul retro di corso Agnelli, alla «porta zero» dove ai presidi per il contratto del ’79 si arrivò a sparare, ora c’è il «Motor Village», ambienti spaziali, ragazzi e ragazze in tenuta da showroom, ristorante, caffè, brunch...
Gli operai gramscianamente in «carne ed ossa» bisogna cercarli alla «porta 2», quella della Carrozzerie, dove ieri è piovuto l’ufo Nichi Vendola e dove da giorni si ammassano le camere e telecamere ansiose di sguardi, di parole, di rabbia, di lacrime. La questione operaia che si diceva marginale è tornata a misurare il polso di una città che in gran parte vive altrove e d’altro. Mozioni ed emozioni che misurano il cambio di stagione nel «laboratorio» che fu di Gramsci, Gobetti, Einaudi, dell’avvocato Agnelli. Lo stress test di Sergio Marchionne porta un segno epocale. Sarà la pancia di Mirafiori a dare l’unica risposta che conta. Ed è una pancia misteriosa, diceva Peppino Di Vittorio, Torino «fa sempre di testa sua».
Il dibattito appassiona e divide. Gustavo Zagrebelsky, che sta preparando Biennale Democrazia, medita di portare al confronto diretto Susanna Camusso e Sergio Marchionne. Intanto oggi si vota. Carlo Callieri, che ha vissuto come capo del personale della Fiat la stagione di ferro e di fuoco degli Anni 70, dice che l’accordo è giusto: «Non c’è lesione dei diritti semmai correzione degli abusi, assenze e scioperi. Nessuno vuole escludere la Fiom, semmai sono loro che si mettono fuori gioco. Il confronto è con lo scenario del mondo».
Dalla cittadella gramsciana, però, gli intellettuali accusano. Nessuno di loro ha volantinato a Mirafiori come faceva Sartre alla Renault di BoulogneBillancourt, ma si fanno sentire. Marco Revelli ha promosso un appello per la denuncia dell’accordo. Tra chi ha aderito anche un noto non firmarolo come Michelangelo Bovero, appartato filosofo della politica, il discepolo prediletto di Norberto Bobbio: «È vero - ci dice - non firmo quasi mai gli appelli, ma questa volta sono allibito, sembra un ritorno al capitalismo delle origini, il testo mi sembra totalmente incostituzionale, è l’aziendalizzazione della logica del mondo, l’affermazione del diritto del più forte. Se vuole una citazione letteraria penso a Schiller: d’ora in poi la legge è questa spada: vita a chi si sottomette...». Ma Bobbio avrebbe firmato? «Ci sarebbe stato vicino. Di fronte ad un altro appello una volta mi disse: firma, ma ricordati che firmare appelli non serve a niente perché in Italia l’opinione pubblica non c’è più».
Sergio Chiamparino assiste con il solito realismo all’ultimo grande choc da sindaco: «Gli appelli degli intellettuali tuttologi mi ricordano quelli degli intellò francesi che si muovono non appena succede qualcosa che gli fa sentire l’odore del ’68. A Torino gli intellettuali avevano firmato anche contro il parcheggio di piazza San Carlo». Ci fu il solito cancan, ora la piazza è tornata ad essere la più bella di Torino. Ma che dice il sindaco dell’accordo di Mirafiori? «Se vince il sì, tutte le strade sono aperte; se vince il no, entriamo nella nebbia».
In tutto ciò è ricomparsa la stella a cinque punte. Non esattamente quella delle Br perché manca il cerchio intorno; ma le due punte in basso sono allungate, il disegno è sicuro, l’insieme piuttosto sinistro. Sono comparse sul cavalcavia della ferrovia di corso Sommeiller. Accanto due scritte: Marchionne fottiti e non vogliamo diventare cinesi, ma i cinesi devono diventare come noi. Le hanno coperte con timide e pudiche strisce di carta bianca. Ma qualcuno ha già strappato le strisce è la stella è ancora lì, proprio di fronte a una piccola strada, via Ribet, dove il 10 aprile del 1980 le «ronde proletarie» avevano disarmato e ucciso una giovane guardia giurata, Giuseppe Pisciuneri. Vittima completamente dimenticata di quello che si chiamava allora il «terrorismo diffuso». Tutti minimizzano, com’è ovvio, il «contesto è diverso», «scritte volgari e imitative» come se quelle di allora non fossero volgari. Chiediamo al procuratore Giancarlo Caselli, che le Br le ha viste nascere e morire, se ricorda un brigatista passato dalle scritte alle pistole. «Oggi come oggi - risponde - non c’è niente che possa far pensare... niente di paragonabile alla violenza organizzata degli anni di piombo: allora le scritte sui muri erano una goccia nel mare... E oggi, il confronto tra i lavoratori, è duro, ma civile».