Antonio Monda, la Repubblica 12/1/2011, 12 gennaio 2011
LA MIA LITTLE ITALY HA SEDOTTO L´AMERICA"
A poche settimane dal trentacinquesimo compleanno Salvatore Scibona è stato inserito nella lista dei venti migliori scrittori sotto i quaranta anni compilata dal New Yorker. Con un solo romanzo, intitolato The End, e qualche racconto pubblicato su riviste quali il Threepenny Review, l´autore si è affermato come una delle voci più significative della sua generazione, tanto da essere paragonato a Faulkner. Italiano di terza generazione nato e cresciuto a Cleveland, Scibona ha raccontato nel suo romanzo, che uscirà in Italia dall´editore "66 and 2nd", una saga ispirata a quella della propria famiglia, originaria di varie zone del nostro Paese: Campania, Sicilia (da cui proviene la maggioranza dei suoi parenti) e Abruzzo. Il libro, definito da Publisher Weekly, un "debutto eccezionale" è ambientato nella comunità italiana di Cleveland, e racconta una serie di storie intrecciate in un periodo di tempo che va dall´inizio del secolo scorso al 1953. Scibona, finalista del National Book Award, si rivela un virtuoso della lingua e della costruzione narrativa, ma il suo più grande talento è nel creare personaggi memorabili, che rielabora da esperienze conosciute da vicino e nel mescolare episodi di cronaca con altri completamente romanzati.
«È un approccio naturale», racconta nel suo ufficio di Provincetown, «la letteratura viene dalla vita, e non potrebbe esistere diversamente, con il rispetto e la celebrazione delle fragilità e le grandezze degli esseri umani».
Perché ha deciso di cominciare a scrivere?
«Scrivo perché non posso fare altrimenti. Per me si tratta di una necessità ancora prima che una scelta. Sin da quanto ero in prima elementare leggevo nella biblioteca della scuola, e a dieci anni ho costretto i miei genitori ad acquistarmi una macchina da scrivere. Vivo confinato all´interno del mio mondo e quando non scrivo mi sento depresso, ma voglio aggiungere che ho sempre voluto scrivere, ma mai diventare uno scrittore».
Qual è la differenza?
«Chi scrive obbedisce a una necessità e una passione, lo scrittore a una convenzione e una qualifica. E trovo che sia un atteggiamento prezioso, malgrado il rischio di intellettualismo e snobismo».
Il suo romanzo racconta la comunità nella quale è cresciuto: è inevitabile partire dalla realtà più vicina?
«Nel libro, che ho impiegato 12 anni a scrivere, c´è molto meno della mia vita di quanto si possa immaginare. E nel rispondere alla domanda mi viene in mente un racconto di Annie Dillard: un eschimese disperso in una zona deserta, per potersi cibare taglia un pezzo della propria coscia, ne mangia una piccola parte e usa il resto come esca per pescare. Ritengo che questo metodo di sopravvivenza sia una metafora della scrittura: si inizia sempre con il proprio corpo e poi tutto prende vita. Tuttavia rimane il rischio dell´eccessiva vicinanza».
È importante per lei essere italo-americano?
«L´America è un paese caratterizzato dalla cittadinanza: se sei cittadino sei anche americano. Non ho mai vissuto in una nazione in cui l´etnia e la cittadinanza coincidono, e quando mi capita di venire in Italia sono sempre divertito e frastornato quando i miei parenti mi presentano dicendo "è americano, ma in realtà è italiano"».
Si è mai sentito straniero in America?
«No, anzi mi succede sempre di scoprire cosa sia l´America ogni volta che vado all´estero. Mi accade invece di sentirmi straniero quando vengo in Italia, pur amandola profondamente. Anche quando ho visitato città moderne ho avuto la sensazione di vivere in un luogo che apparteneva al mio passato».
Perché ha scelto di raccontare una storia ambientata nel passato?
«Il romanzo tende a usare il passato, perché implica che si ha la visione complessiva di tutti gli elementi, e che la storia è stata elaborata per poter raccontare ciò che si ha bisogno di dire».
Tra i grandi scrittori del passato c´è qualcuno che considera un modello?
«Non ho un modello ma una dieta: so cosa mi piace mangiare, e quello che mi fa crescere nasce da lì. I miei primi riferimenti sono Fauklner, Virginia Wolff e Bellow, e mi rendo conto di quanto siano diversi. Con Bellow ho un rapporto particolare: ha pubblicato uno dei miei primi racconti sulla rivista News from the Republic of Letters. Ritengo che non bisogna aver paura di farsi influenzare, e incoraggio me stesso e i futuri scrittori a leggere molto».
Quali autori preferisce leggere di solito?
«Sono un monogamo seriale. Nel senso che mi innamoro perdutamente di un autore e cerco di conoscere ogni cosa che ha scritto. Ora è la volta di Halldor Laxness: credo di non aver mai amato nessuno in egual modo. Tra gli americani il più grande a mio avviso è Don DeLillo. L´ho scoperto quando ho passato sei mesi a Roma: non sapevo parlare l´italiano e acquistai in una libreria internazionale dei libri che mi hanno cambiato la vita. La sua lingua, straordinariamente lavorata, non è l´inglese, ma l´americano e, grazie a questo uomo, severo come un monaco, ho capito il rapporto tra l´anima e il modo in cui ti esprimi. E poi, ovviamente, voglio citare Bellow: un gigante della letteratura. Basterebbe citare il finale del Dono di Humboldt, in cui si parla di fiori al funerale del protagonista. Un momento di realismo e di assoluta audacia narrativa».
Lei si è laureato allo Iowa Writers Workshop e ora lavora presso il Fine Arts Work Center di Provincetown: servono e sono importanti le scuole di scrittura?
«È un argomento controverso. A mio avviso possono essere utili per far risparmiare tempo. Se avessi venticinque anni e non avessi ancora scritto nulla, ci metterei molto di più a realizzare qualcosa di compiuto. Oltre ad aiutarti sul piano strutturale, un buon docente può farti notare i tuoi tic di scrittura, o ad esempio che i tuoi personaggi femminili sono tutti simili. C´è però il rischio di creare scrittori timidi, omologati».
E le riviste letterarie oggi hanno un ruolo?
«Un ruolo fondamentale, di sopravvivenza. Sono riviste che non nascono certo per far soldi, e sono il modo più diretto che ha uno scrittore per farsi conoscere. Con la consapevolezza che solo all´epoca in cui Hemingway e Fitzgerald scrivevano sul Saturday Evening Post si raggiungeva un pubblico ampio».
È vero che lei scrive su una macchina da scrivere?
«Sì, perché il computer è un apparecchio che distrae, e che aiuta nella funzionalità, un elemento opposto a quello di cui ha bisogno lo scrittore, che invece ha bisogno di concentrazione. Qui a Provincetown dobbiamo selezionare 700 domande per 8 posti. È un processo che prende almeno 5 mesi e che invade i nostri uffici di manoscritti. Sarebbe molto più facile chiedere di mandarci il "pdf", ma insieme agli altri giurati ci siamo resi conto che non leggeremmo con la stessa concentrazione».