Varie, 13 gennaio 2011
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Storr Robert
• Chicago (Stati Uniti) 28 dicembre 1949. Pittore. Critico d’arte. Preside della School of Arts dell’Università di Yale, tra le più prestigiose del mondo. Direttore della 52ª Biennale di Venezia (2007) • «[...] primo curatore dopo molte edizioni (a parte Harald Szeemann) a poter disporre di più di due anni per disegnare la mostra. “Non dovrebbe esser un privilegio. È necessario viaggiare lontano, fuori dagli ambiti commerciali [...] Il ruolo di un curatore, non è di mettere insieme una lista di artisti famosi, ma di creare con tutti loro un rapporto di fiducia basato sulla qualità dell’esperienza. Se si vuole raggiungere il massimo livello, si deve dare ai curatori una autorevolezza reale. In questa Biennale ci sono artisti che, se non avessi lavorato molto per convincerli, non avrebbero voluto esserci. Per cattive esperienze, o per aver partecipato appena ad altre rassegne. Per un artista una Biennale è impegnativa finanziariamente, praticamente, e molto emotivamente coinvolgente”. Storr ha un curriculum di grande impatto: “Ho lavorato da quando avevo 10 anni, part o full time. Ho imparato tutto quello che conosco dai lavori che ho fatto. Dall’assistente operaio, o di artisti, a falegname per gallerie. Sono pittore per formazione e pratica”. Per 12 anni è stato il curatore del dipartimento di pittura e scultura del Moma di New York. oggi è rettore della Yale School of art, curatore al Philadelphia Museum of art. Non nuovo a Venezia, nel 1999 ha curato la mostra di Bruce Nauman, Leone d’oro di quell’ edizione della Biennale» (Angelo Bucarelli, “Panorama” 14/6/2007) • «[...] autore di testi monografici su significative figure del Novecento, opinionista di riviste come “Artpress” e “Frieze”, in privato anche pittore neoespressionista. Personalità difficilmente catalogabile, Storr è riuscito a difendersi dalle degenerazioni oggi imperanti tra i critici: il filologismo asettico, il sociologismo banalizzante, il filosofismo approssimativo. È uno studioso attento alla dimensione storica, che sa sottrarsi alle investigazioni di tipo archivistico. Vuole stare dentro il presente, senza rimanere ingabbiato, però, dentro la prigione della cronaca. [...] il suo itinerario intellettuale è decisamente antiaccademico. Gli anni di formazione in Francia, in pieno Sessantotto. La condivisione delle utopie dei gruppi pacifisti. La frequentazione di Siqueiros, in Messico. La lettura dei libri cult della gauche europea: Freud e Marx, Trotzkij e Rosa Luxemburg, Sartre e Lukács, la Arendt, Barthes e Bachtin. La scoperta delle cinque B (Balzac, Baudelaire, Baldwin, Benjamin, Borges): “Sono i miei eroi”. Questi riferimenti ritornano costantemente nelle analisi di Storr [...] In lui, vi è l’apocalittico, che sceglie di mettersi di traverso rispetto all’attualità: senza assumere mai le posizioni conservatrici di Robert Hughes. E anche l’integrato, che segue tendenze e intercetta novità. Un osservatore indipendente, che interroga il passato per cogliere meglio le oscillazioni e le traiettorie della post-modernità. Dice di “non avere una visione pessimistica della situazione odierna”. Si dichiara affascinato dal gran teatro dell’arte contemporanea, “frammentato e pieno di contrasti, ma non confuso”. Non ha nostalgie: non auspica la ripresa di un pensiero forte, rivolto a dare ordine all’esistente in modo artificiale. Ad animarlo è una “sincera sfiducia nei confronti delle ideologie di ogni genere, comprese quelle estetiche”. Non condivide il gesto di coloro che non vogliono mai verificare sul campo le loro convinzioni: come quei critici che tendono a divagare troppo o rischiano di semplificare eccessivamente. Per Storr, l’azione ermeneutica deve muovere sempre dai fatti: ovvero, dalle opere d’arte. “Episodi dotati di una complessità fisica e semiotica: meravigliosi, dirompenti, in grado di espandere i nostri orizzonti cognitivi”. Occorre saldare militanza e riflessione. Bisogna “mettere le idee alla dura prova della realtà, collocandole nel vivo degli scenari sociali e politici”. All’origine della pratica interpretativa non deve esserci la necessità di dimostrare teorie astratte. Non bisogna offrire perfette costruzioni retoriche, che rendono superfluo “l’impegno concreto nel mondo imperfetto situato oltre la pagina e al di là delle aule universitarie”. Ciò che conta è l’ascolto: il dialogo con pittori e scultori. “I buoni critici pensano autonomamente, ma ascoltano con pazienza e cura ciò che gli artisti pensano di se stessi”. Dopo, inizia la fase della scrittura: che si dà essenzialmente come strategia del confronto. Non discorso compiuto e risolto, ma processo in divenire, “esposizione narrativa di concetti”. Un modo per “ragionare ad alta voce”, intercettando echi e rifrazioni. L’obiettivo è quello di dare al pubblico molteplici informazioni, rimanendo “aperti alla possibilità di cambiare opinione con onestà”. Addio critici-artisti, critici-manager, critici-performer, critici-globe trotter, critici-tycoon. Addio sostenitori di movimenti, le cui opzioni sono “il prodotto di un accordo di tipo dottrinale, l’esito di una mediazione o, nel peggiore dei casi, il frutto di scambi di favori”. Addio sudditanza alle regole del mercato, che ha “un enorme potere nell’impedire il cambiamento o nell’avallare solo trasformazioni conformi agli interessi costituiti”. Il critico non deve adeguarsi al “potere che c’è”. Ma individuare quelle opere che “non cessano mai di rivelarsi significative agli occhi di chi le guarda”. Custodire una disciplina maieutica. Lambire passaggi e sfumature: “vedere meglio ciò che è in evidenza, ma anche ciò che si cela nell’ombra”. Valorizzare la qualità, al di là di ogni condizionamento esterno. “Valutare in cosa sia meglio impiegare il nostro tempo prezioso: e non soffermarsi su opere che non premiano lo sforzo che l’arte davvero seria richiede”. Ecco il nome dell’avanguardia auspicata da Storr: arte seria. Un’arte che non insegue mode e scandali, ma è fatta di passi rallentati e di introspezioni prolungate. Dunque, non Hirst, Koons o Cattelan, ma Richter (“lo ammiro moltissimo”), la Bourgeois (“la frequento da trent’anni”), Nauman, Johns, Ryman. E, poi, Anselmo, González-Torres, l’Abramovic: “Sono stati la mia università”. La predilezione va, soprattutto, a quegli artisti— da Velázquez a Matisse, da Ryman a Richter — che evitano ogni distrazione: “I loro quadri parlano solo della pittura in sé”. Dietro queste posizioni si nasconde un atteggiamento idealistico. “Ars longa, vita brevis est”: Storr si richiama a questo celebre detto classico, per descrivere l’incontro con quadri, sculture e installazioni come un’avventura destinata a rimanere incompiuta. Non tutto, infatti, può essere detto, spiegato, insegnato. Nelle accademie, i professori devono solo limitarsi a dare suggerimenti su specifici problemi tecnici: ma “non si può comunicare a nessuno il talento che porta a sublimare un determinato bisogno poetico in una forma”. L’arte è un’esigenza profonda, segreta. “Un dono che non esauriremo mai prima di aver consumato il tempo del nostro orologio esistenziale”. Detiene un potere assoluto, che si manifesta con semplicità, in silenzio. “Agisce nella coscienza, rendendo falsi i mormorii dei seminari, i rumori dell’acquistare e del vendere. Come commentare la mano di Anselmo protesa nel nulla, il tappeto di caramelle in argento di González-Torres o l’agonizzante lavaggio d’ossa della Abramovic?”. Struggenti misteri. E il futuro? Quali saranno i maestri di domani? Storr invita a guardare verso i nuovi continenti: i Paesi latinoamericani, l’Asia, l’Africa. Ma preferisce non fare nomi. “Il presente ci offre tanti maestri grandi e piccoli: figure irresistibili ma forse non epocali”. Infine, indica una prospettiva per l’avvenire: l’arte dovrà tornare a farsi “critica della realtà com’è, dal punto di vista sia ipotetico che trascendente”. Vi saranno catastrofi, e anche incanti. Bisogna, perciò, portarsi al di là della profezia di Adorno (“Dopo Auschwitz non è più possibile la poesia”). Storr: “Ci sarà poesia dopo Auschwitz, e dopo Kolyma e Hiroshima. Il ventunesimo secolo ci consegnerà orrori inimmaginabili, ma pure meraviglie. E, come ha dimostrato Goya, il dramma può generare bellezza. Vi sarà grande arte finché non distruggeremo il pianeta”» (Vincenzo Trione, “Corriere della Sera” 7/1/2010).