Vittorio Zincone, Sette 13/1/2011, 13 gennaio 2011
«VORREI FARE DELL’ITALIA UNA DISNEYLAND CULTURALE». INTERVISTA A MARIO RESCA
Quando Sandro Bondi nel 2008 chiamò Mario Resca, ex re di McDonald’s Italia, per guidare la “valorizzazione del patrimonio culturale”, l’intellighenzia rimase sbigottita. Si pensò: «Ora i nostri musei verranno svenduti come cheeseburger». Seguirono editoriali indignati e appelli internazionali. Sono passati due anni. Le stroncature continuano: polemiche sui suoi compensi e sui conflitti d’interesse. Resca sbuffa: «Una piccola parte dell’apparato mi boicotta ancora, ma qualcosa sta cambiando. La gente mi segue».
L’ex re del panino fordista, ex cacciatore di teste, con una quantità incredibile di presenze nei Cda delle principali aziende italiane (è tutt’ora in quelli di Eni e Mondadori), mi accoglie in una stanza tappezzata di libri del ministero della Cultura. Ci accomodiamo sotto un crocifisso di legno. Resca parla lentamente. Dribbla le polemiche sulla parentopoli di Bondi e sul futuro del ministro («Sono questioni politiche, io sono un tecnico»). Come molti manager multinazionalisti, tende a infilare vocaboli inglesi nei suoi ragionamenti: «Con il marketing e i social network abbiamo colpito il target. Nell’ultimo anno c’è stato il 15% dei visitatori in più. Per questo business è un turn around fondamentale. Uno swing eccezionale».
Già. Sul tavolo di Resca però c’è anche una brochure impietosa sulle condizioni dei nostri musei. Apro una pagina a caso: ottanta siti culturali su cento non hanno una caffetteria. Un altro dato: il 50% non ha una libreria. Ancora: nel 76% non ci sono didascalie in inglese. Partiamo da qui.
Resca, i nostri musei sono messi male.
«Quel rapporto l’ho fatto redigere io. Sono arrivato qui e ho detto: “Il re è nudo”. Ma lo sa che ci sono musei che non hanno un catalogo aggiornato del loro patrimonio?».
Oltre a dire che “il re è nudo”, che cosa ha fatto in concreto?
«Qualche esempio: ho allungato gli orari di apertura di molti musei, ho avviato un processo trasparente per le gare d’appalto per i servizi aggiuntivi museali e come commissario del progetto Grande Brera ho trovato un accordo per valorizzare l’Accademia e la Pinacoteca».
Lei ha raccontato di aver visitato i nostri siti culturali prima di accettare questo incarico. Qual è la situazione più disastrosa che ha incontrato?
«Il Museo Raccolta Manzù ad Ardea. Uno scandalo. Erbacce ovunque e molti pezzi spariti a causa dei furti notturni».
Il miglior museo italiano qual è?
«È una domanda a cui non vorrei rispondere. Nessuno è all’altezza degli standard che ho trovato al Metropolitan di New York o al Louvre di Parigi».
Quelli sono i cosiddetti musei universali… Noi abbiamo 450 musei statali sparsi sul territorio. Salvatore Settis, l’ex presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali, dice che l’Italia è un museo diffuso.
«Ma i turisti vanno solo a Roma e a Firenze. Se non riusciamo a portare visitatori nei minuscoli paesini sparsi per l’Italia, i musei da diffusi diventeranno dispersi».
Lei ne vorrebbe chiudere qualcuno?
«No. Voglio valorizzare quel che abbiamo. Soprattutto i siti meno visitati. Magari delegando qualche gestione ai privati».
Non mi ha ancora detto il meno peggio tra i nostri musei.
«Il Museo egizio di Torino, gestito da una fondazione. Ma ripeto: in nessun museo italiano ci si avvicina alla total experience che si vive all’estero».
La total… che cosa, scusi?
«Arrivare in una città e trovare tutte le agevolazioni possibili per visitare i luoghi della cultura: mezzi pubblici, indicazioni in più lingue, guide… E una volta raggiunto un museo, trovare custodi sorridenti, bagni puliti, didascalie, librerie, negozi, orari accessibili a tutti… In questo ministero sono considerate eresie. Io sono qui per renderle normalità».
Per ora non si è visto molto. Il Maxxi, il nuovo museo di arte contemporanea e design di Roma, chiude alle 19, il bar non ha sedie…
«Quando mi sono insediato ho chiarito: “Il mio compito è far condividere il nostro patrimonio culturale agli italiani. Ce lo impone la Costituzione”. Molti mi hanno risposto: “Lascia perdere”».
Riempire i musei. Lei era favorevole o contrario all’esposizione delle city car all’interno dell’Ara Pacis?
«Contrario».
È favorevole alle feste nei musei?
«Dipende. Una festa di matrimonio nella Reggia di Caserta non è uno scandalo».
Non c’è un problema di decoro?
«A me è capitato di cenare all’ombra di incredibili capolavori: un dinner di classe in un museo non è male».
Si teme che un uomo d’azienda come lei punti a mercificare la cultura.
«La mercificazione era già qui prima che arrivassi io».
Lei voleva mandare in tournée sia i Bronzi di Riace sia i Giganti di Monte Prama. È stato stoppato.
«Volevo promuovere la cultura calabrese e quella sarda. La lotta per la supremazia nel turismo balneare l’abbiamo già persa. Dobbiamo puntare sul turismo culturale. Invece arretriamo ogni anno nelle classifiche mondiali».
Chi avanza?
«Chi investe. La Croazia, la Serbia…».
Da noi i fondi per la cultura vengono tagliati.
«È un errore. Nel resto d’Europa si investe cinque volte più di noi».
Lo dica a Giulio Tremonti. Lui sostiene che con la cultura non si mangia.
«Non so se ha pronunciato davvero quella battuta. Comunque i Beni culturali dovrebbero diventare un ministero di serie A. Perché nei prossimi 20 anni, se ci crediamo, potremmo assistere a un nuovo rinascimento nella produzione di ricchezza basato sulla leadership del nostro patrimonio culturale. L’Italia potrebbe diventare una grande Disneyland culturale».
Eccolo là. Su Disneyland la inchioderanno…
«Crediamo davvero che il futuro dei nostri figli sia ancora nelle fabbriche e nel manifatturiero? Lì non abbiamo speranze».
Quindi? Tutti a fare i custodi nei musei?
«No. Dobbiamo creare nuove professionalità: manager del turismo e dei beni culturali… Ha sentito che Alemanno vuole portare la Formula 1 a Roma e realizzare un parco a tema?».
Sì. Lei è d’accordo?
«Assolutamente no. Invece di avventurarsi in nuovi progetti dobbiamo esaltare quel che abbiamo. Un esempio? Il Colosseo aperto 24 ore su 24».
Roma. È favorevole o contrario alla tassa di soggiorno proposta per i turisti che visitano la Capitale?
«La considero una stupidaggine».
Perché?
«Dobbiamo attirare i turisti con nuovi servizi. E non respingerli con nuove tasse. A Londra un turista che entra in un museo spende una media di 18 euro, da noi ne spende 3».
La Tate Modern è gratis.
«Ma ha un bookshop talmente bello che la gente va lì anche solo per quello. E spende».
Lo vede che ha ragione Settis? Lei è uno di quelli che pensano che il patrimonio artistico serve a fare cassa.
«Non è vero. Dopo aver visitato i nostri musei sono diventato un talebano della tutela e della conservazione. Negli ultimi quarant’anni il patrimonio è stato tutelato malissimo. E, ora, senza una buona valorizzazione non si va lontani. I musei e i siti culturali devono essere frequentati da più persone possibile. Vorrei che per gli italiani andare in un museo diventasse la normalità, come andare al cinema. Invece molti soprintendenti vorrebbero i musei vuoti. Hanno una visione elitaria della cultura».
Sbaglio o lei manderebbe volentieri in pensione molti dei soprintendenti?
«I soprintendenti sono studiosi straordinari. Ma per la gestione degli appalti di manutenzione e per la valorizzazione servono altre professionalità».
Quelle come la sua?
«Per guidare la Fiat non è stato chiamato il progettista di un motore Panda, ma un manager come Marchionne. Per gestire Pompei, che ha problemi di sicurezza e migliaia di visitatori al giorno, non ci si può affidare a un archeologo».
Il critico/curatore Francesco Bonami ha scritto sul “Riformista” che i crolli a Pompei sono anche colpa di Resca.
«Bonami non è informato. E se avessimo modo di incontrarci si ricrederebbe. È già successo a molti dei miei detrattori».
Mi fa qualche esempio?
«Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, e Umberto Allemandi, direttore del Giornale dell’Arte, all’inizio sono stati feroci con me. Ora siamo in ottimi rapporti».
Se lei fosse il premier che riforme introdurrebbe per valorizzare il nostro patrimonio?
«Metterei i proventi dei biglietti a disposizione dei musei e non dell’erario. E defiscalizzerei le donazioni. Succede in tutto il mondo. Ne abbiamo bisogno».
Berlusconi è un suo estimatore, perché non lo convince a puntare sulla cultura?
«Ci ho parlato. Mi ha dato ragione. Ma poi ha altre preoccupazioni».
Lei è nel Cda della berlusconiana Mondadori, un’azienda che con la controllata Electa ha molti interessi nei musei.
«Electa lavora con i musei da quindici anni, io ce l’ho trovata. E mi risulta che abbia solo da perdere con i nuovi bandi per le gare d’appalto che ho fatto predisporre. Ho toccato molti interessi consolidati».
Lei quando ha conosciuto Berlusconi?
«Nel 1980 circa. Sono stato consulente della Standa e poi di Mondadori. Franco Tatò, che poi divenne amministratore delegato, ce lo portai io. Con Berlusconi il rapporto è di stima».
Nel 2007 lei lo criticò dicendo che aveva fallito molti obiettivi.
«Berlusconi ha molti meriti, ma non è ancora riuscito a liberalizzare il Paese. L’unico che ho sentito parlare seriamente di liberalizzazioni negli ultimi anni è stato Pierluigi Bersani».
C’è stato un momento in cui ogni volta che c’era da occupare una presidenza spuntava il suo nome, in quota Berlusconi: per Alitalia, per Telecom… era in lizza pure per il ministero degli Esteri.
«Dopo le dimissioni di Renato Ruggiero, nel 2002, Berlusconi mi propose di guidare la Farnesina. Rifiutai per rispettare l’impegno con McDonald’s. Ancora oggi mi dicono che feci male».
Ma è vero che a un certo punto anche Rutelli la reclutò?
«Mi chiese una mano per le sue liste civiche nel 1997».
Quando lei è entrato ai Beni Culturali, però, Rutelli si è indignato.
«Mi chiamò per chiarire. Mi raccontò la sua esperienza e mi disse che da ministro aveva aperto 16 musei. Esattamente quello che non si dovrebbe fare».
Perché?
«Dobbiamo valorizzare quel che abbiamo, non aprire nuovi buchi nel bilancio per autocelebrazione politica».
Come si diventa un manager buono per così tante occasioni?
«Vengo da una famiglia operaia. Mio padre imponeva una legge: se ti rimandano, vuol dire che non sei fatto per la scuola. Sono sempre andato benissimo. Mi iscrissi alla Bocconi vincendo una borsa di studio all’insaputa dei miei genitori».
Lei era a Milano negli anni della contestazione.
«Partecipai ai cortei e a qualche occupazione. Ma non ero molto barricadero. Al momento della laurea avevo già due figli. Prima cominciai a lavorare per il mensile economico L’espansione. Una pacchia. Poi entrai alla Chase Manhattan Bank. Gli amici mi accusavano di essermi venduto all’imperialismo. Mi difendevo dicendo che l’imperialismo si può combattere soltanto dall’interno».
Dentro l’imperialismo poi lei ci è rimasto tutta la vita: ha fatto il cacciatore di teste, è stato commissario della Cirio dopo il crac, ha guidato la McDonald’s Italia per diciotto anni ed è stato pure presidente della Camera di Commercio italo-americana e del Casinò di Campione.
«Ci crede che non ho mai giocato d’azzardo?».
Sì. A cena col nemico?
«Direi proprio Settis. In generale sono per incontrare chi non è d’accordo con me».
Ha un clan di amici?
«Quelli con cui vado in bici. Gente semplice».
Che cosa guarda in tv?
«Talk show politici: Porta a porta, Ballarò…».
Il libro preferito?
«Le memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar».
Il film?
«Avatar. Innovativo e con una storia pop».
La canzone?
«Quelle dei tempi delle contestazioni. Joan Baez, Francesco Guccini… Ha presente La locomotiva?».
Compagno Resca, non esageri. Sa quanto costa un litro di benzina?
«Circa un euro e mezzo».
I confini della Libia?
«Egitto, Algeria, il Mediterraneo…».
Sa dove si trova La Madonna del parto di Piero della Francesca?
«Mi pare in Toscana. Non l’ho mai vista. Lo sa che la volevamo portare in trasferta nelle sale del Senato?».