Nino Sunseri, Libero 13/1/2011, 13 gennaio 2011
SE VINCE LA FIOM, L’INDUSTRIA È MORTA
In fuga verso la sconfitta. Ha ragione la Fiom a guardare con sospetto al referendum di oggi e domani nel corso del quale i 5.500 dipendenti di Mirafiori dovranno pronunciarsi sul nuovo contratto di lavoro alla Fiat. Negli ultimi trent’anni il sindacato rosso ha perso tutte le consultazioni. Nessuna esclusa. Dalla marcia dei 40 mila dell’ottobre 1980 (un voto dato con i piedi se non con le urne), fino a Pomigliano la scorsa estate. In mezzo una sconfitta dietro l’altra: dalla scala mobile del 1985 al mancato quorum del 2003. Il voto avrebbe dovuto estendere il divieto di licenziamento anche alle imprese con meno di quindici dipendenti. L’eventuale vittoria sarebbe stata la fine delle Pmi e il corroborante migliore per il lavoro nero. Un bel disastro per l’indu-
stria italiana se la Fiom avesse vinto anche un solo referendum. In fabbrica solo diritti per i sindacalisti. Mai un dovere. Figuriamoci. Ma anche inflazione alle stelle e appiattimento salariale per effetto della scala mobile. Nessun dipendente licenziabile. Nemmeno i terroristi. La protesta 1980 nasce come reazione alla decisione della Fiat di mandare a casa 14 operai in odore di Br. Enrico Berlinguer alle porte di Mirafiori incoraggia l’occupazione della fabbrica. Una rottura senza precedenti tra gli Agnelli e il partitone rosso. Eppure, tre anni prima il segretario non aveva nascosto il fastidio per il movimentismo della Fiom. Giorgio Forattini su Repubblica lo ritrae in pantofole e vestaglia mentre sorseggia un tè e legge l’Unità. L’espressione è irritata per gli schiamazzi provienienti dalla strada dove, il 2 dicembre 1976 trecentomila metalmeccanici sfilano per il rinnovo del contratto. Vignetta immortale.
Ma, nonostante qualche fastidio, al richiamo del sindacato rosso il Pci non ha mai saputo resistere. Fino a farsi trascinare al referendum del 1985 sulla scala mobile. Una sconfitta memorabile. Craxi aveva dato una piccola sforbiciata alla contingenza al termine di un drammatico vertice sindacale nella notte di San Valentino del 1984. Una semplice limatura di quattro punti. L’ala estrema della Cgil, insieme al Pci urlarono (come sempre), che erano stati colpiti «i diritti inviolabili dei lavoratori». Il 9 giugno 1985 la Fiom, la Cgil e il Pci andarono incontro alla più sanguinosa, e inattesa delle sconfitte. Gli italiani avevano accettato il taglio alla contingenza che, di fatto, sarebbe stata soppressa solo nel 1993. Fu l’ultimo frutto di una sconsiderata campagna referendaria. Neanche in precedenza, comunque, le urne erano state amiche della Fiom. Il gioco di corsi e ricorsi ricorda ancora le elezioni sindacali del febbraio ’55. Sempre nella fatale Mirafiori. Nel voto per la rappresentanza aziendale il sindacato rosso conosce la prima sonora batosta. La sua rappresentanza in fabbrica scende dal 63 al 37%. Saltano molte teste e alla guida della Fiom arriva Bruno Trentin. Organizza, con successo, il “ritorno in fabbrica”. Non a caso con Luciano Lama e Vittorio Foa è considerato l’ultimo dei capi carismatici della Cgil. Dopo di lui, alla guida della Fiom ci sono stati il compianto Claudio Sabattini, Gianni Rinaldini e l’attuale segretario Maurizio Landini, tutti emiliani (dove Fiom monopolizza i delegati sindacali) e fedeli a una linea movimentista che assegna al sindacato il ruolo di perno di tutto il dissenso prodotto da un conflitto sociale sempre più atomizzato. Una strategia perfetta per la sconfitta.