Giancarlo Mancini, Il Riformista 10/1/2011, 10 gennaio 2011
PERCHÉ GUADAGNINO SPOPOLA NEGLI USA?
LA RISPOSTA È NEL “MAINSTREAM” DI MARTEL -
Quest’anno molti sono rimasti sorpresi a dover constatare che l’egemonia del cine-panettone, sinora modello di divertimento evidentemente ritagliato su misura solo ed esclusivamente per il nostro pubblico, non è più quella di una volta. Ora spopola Checco Zalone, almeno in Italia. Ma come si fabbrica un successo globale? Domanda complicatissima, su cui i nostri produttori si lambiccano con pochi risultati da trent’anni, visto il successo che sta riscuotendo negli Stati Uniti Io sono l’amore di Luca Guadagnino e l’esclusione dalla cinquina degli Oscar del nostro ultimo kolossal-Cinecittà: Baarìa.
Ha provato a risponderci Frédéric Martel in Mainstream (Feltrinelli, pp. 440, € 22), resoconto di un’inchiesta durata cinque anni e con 1250 persone intervistate per scoprire i segreti di quella che chiama, parafrasando Samuel Huntington, la «guerra mondiale dei contenuti». E per fare ciò non si può non partire da Hollywood, da Jack Valenti, il potente presidente della Mpa, l’associazione delle case di produzione, quella che in pratica regola, in barba alle più elementari logiche di concorrenza, il traffico delle uscite dei film di punta nei momenti propizi della stagione in modo da evitare scontri fratricidi. È stato lui a far passare la possibilità da parte degli studios di autoregolamentare i contenuti dei propri film in modo da evitare la censura, «sono i professionisti a dover stabilire le regole, non i governi», ribadisce gustando il proprio potere.
È in fondo un’inchiesta abbastanza vecchio stile questa di Martel, fondata sui chilometri percorsi e le porte, o i telefoni, sbattuti in faccia. Non mancano le sorprese o le affermazioni a prima vista almeno esagerate, come quella di Mohammed Alì, manager di due multisala nei pressi del Cairo capaci di far registrare da soli il 20 per cento dell’intero botteghino egiziano: «Le toilette sono così belle che mi chiedo se un giorno non si verrà al cinema solo per vederle».
Il multisala può anche diventare il fulcro di una nuova città, come il Village point di West Omaha, 16 sale riservate solo ai film che il pubblico vuole vedere, programmati ogni quindici minuti in modo da non aver bisogno neanche di consultare l’orario di inizio. Le zone periferiche della città americane si sono riempite a un ritmo vertiginoso negli ultimi venti anni, non sono più solo dei sobborghi malfamati, ma degli exurb, aree completamente indipendenti dal centro, per cui gli abitanti possono lavorare e vivere lì senza bisogno di spostarsi ogni giorno. Curioso è il caso di Atlanta la cui popolazione è cresciuta negli anni Novanta di appena 22mila unità, mentre invece l’exurb è di 2,1 milioni.
I popcorn e la Coca-Cola, e non i biglietti, sono i veri motori del business cinematografico, basti vedere la guerra tra Pepsi e Coca-Cola per gli appalti delle grandi multisale. «L’esperienza del cinema - ribadisce Martel - si trasforma e diventa, nel bene e nel male intrinsecamente legata al centro commerciale, ai popcorn, alla periferia e alla multisala».
Nonostante i grandi rivolgimenti che si preannunciano da diversi anni è ancora l’America il produttore egemone di film, musica, serie televisive. L’introduzione di capitale straniero in grandi major come la Sony-Columbia non ha affatto influenzato questa capacità, lo studio non è diventato più giapponese ma, se possibile, ancora più americano. Questa egemonia è determinata dalla capacità, ancora insuperata, di concepire prodotti dotati di un linguaggio e di modelli comprensibili ai quattro angoli del globo, indipendentemente dai contenuti. Ecco perché un’industria potente e ricca come Bollywood riesce a costruire grandi successi solo in India, così come i cinesi e i brasiliani, solo per citare alcuni tra i grandi paesi emergenti nel marcato economico mondiale. Sono ancora e solo gli americani a fare film per tutti. «È un modello di cultura - afferma Martel nelle conclusioni - simile al “tex-mex”, ovvero né propriamente texano né messicano, poiché la cultura tex-mex è una cultura locale americanizzata dagli stessi messicani-americani nel territorio degli Stati Uniti. Da Re Leone ad Aida, da Kung fu Panda a The Departed, da Tintin di Spielberg a Shakira, gli Stati Uniti esportano questo tipo di cultura, né completamente originale né totalmente americana».
Ecco in parte spiegato il successo di Io sono l’Amore presso un pubblico, quello americano, che si dedica ai film stranieri solo in alcuni periodi dell’anno, quelli meno fortunati. La sua confezione internazionale, una fotografia assai accattivante senza essere lussuosamente demodé, un’attrice di rango internazionale e lingua inglese come Tilda Swinton, hanno generato la sorpresina di un film d’autore escluso anche dalla Mostra del cinema di Venezia. È proprio questo il mainstream, in fondo, «il contrario di controcultura, nicchia; a torto o a ragione è il contrario di arte. L’espressione può avere anche una connotazione positiva e non elitaria, nel senso di “cultura per tutti”», o più negativa nel senso di “cultura dominante”. Chissà quanti registi europei prenderebbero ciò per un complimento.