Maurizio Cattelan, Rolling Stone n.87 gennaio, 12 gennaio 2011
MONSIEUR GONCOURT
(Intervista a Michel Houellebecq) -
Fin dall’incipit, l’arte è al centro dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq: «Jeff Koons si alzava dalla sedia, le braccia protese in uno slancio d’entusiasmo». Al suo fianco, Damien Hirst «sul punto di formulare un’obiezione»: due dei più ricchi artisti contemporanei catturati in una sola immagine. È un quadro di Jed Martin, l’artista protagonista di La carta e il territorio, tradotto da noi come gli altri suoi libri da Bompiani. Il quadro in questione si intitola Damien Hirst e Jeff Koons si spartiscono il mercato dell’arte e fa parte della Serie delle composizioni d’impresa: opere che servono a capire le dinamiche del capitale contemporaneo, come Bill Gates e Steve Jobs parlano del futuro dell’informatica. Jed comincia fotografando bulloni, nella serie Trecento foto di chincaglieria, per poi passare a scattare le carte Michelin e in seguito alla pittura, mentre la sua vita scorre apparentemente slegata da quanto produce: gli amori, per Geneviève e per la russa Olga, il rapporto difficile con il padre architetto, l’ombra indefinita della madre scomparsa. Un personaggio a cui fa da pendant quello di uno scrittore, ma non uno qualsiasi: è Michel Houellebecq stesso, “un solitario con forti tendenze misantropiche”, soggetto dell’ultimo quadro di Jed e personaggio indimenticabile nel suo distacco. Dopo anni passati tra scandalo e letteratura fin da Le particelle elementari (1999), il vero Houellebecq ha vinto con quest’ultimo romanzo il premio Goncourt 2010 dopo averlo sfiorato già due volte. Ci arriva, per certi lettori della prima ora, con il suo romanzo meno sconvolgente, ma è solo un’apparenza, come quella della “carta”: il “territorio” da cui nasce il libro, infatti, rimane di una potenza rara. Alessandro Beretta
Incontro Houellebecq all’ingresso del Grand Hotel et de Milan, è lì che si fuma una sigaretta. Lo saluto, mi presento e lo aspetto. Guarda la strada, assolata ma invernale, «Il fait très froid», dice. Morsica la sigaretta, la tiene come Gian Maria Volonté in Per un pugno di dollari, tra mignolo e anulare. Capisco il freddo: è in jeans, parka verde, scarpe stringate senza calze, camicia jeans. È vestito esattamente come sulla copertina del Figaro Magazine della settimana precedente. È scompigliato, astratto, il doppio naturale del personaggio del suo libro. Quando ci accomodiamo nella hall, inizio:
Partirei dalla mappe, come quelle della Michelin fotografate da Jed, siglate dal motto: “La carta è più interessante del territorio”. Come mai questo amore? Le vedi come arte?
«Non è che simboleggino qualcosa, ma le cartine Michelin, soprattutto quelle recenti, sono molto belle. Io guardo le carte per puro piacere».
Dopo questo lavoro sul territorio, Jed arriva alla pittura e diventa un artista dalle quotazioni alte: c’è molta differenza tra il valore degli artisti visivi e quello degli scrittori?
«Per gli artisti non c’è un vero limite di guadagno, l’ultima quotazione è stabilita dal desiderio degli uomini più ricchi del mondo, mentre quello che guadagnano gli scrittori, la loro quotazione, è una percentuale su una stima massima dei possibili lettori. Quindi l’artista riesce ad arrivare a prezzi molto più alti per motivi legati all’economia, criteri diversi comunque da quelli che fanno salire gli anticipi di chi scrive».
Al vernissage di Jed, la sua addetta stampa canticchia “it’s a game, a million dollar game” (è un gioco, un gioco da un milione di dollari): un bel gioco non credi?
«Non c’è niente di male, perché le persone che hanno soldi hanno il diritto di pagare molto caro ciò che vogliono. Inoltre, se sono in tanti a volere la stessa cosa, ovviamente il prezzo sale».
Jed diventa un artista eclettico: fotografia, pittura, videoarte...
«Sì, anche se mancano molte cose: non fa performance, né installazioni, e non usa nemmeno il linguaggio, le parole, cosa che fanno molti artisti. Da bambino Jed disegnava, ma non era veramente in grado di farlo. La pittura è una sfida: gli crea parecchie difficoltà. Non credo che sarebbe arrivato mai neanche alla scultura».
Per immaginare le opere di Jed ti sei ispirato a qualche artista?
«No, Jed sono io. Se fossi stato un artista, avrei fatto foto di bulloni, ferramenta e cartine Michelin, perché mi piacciono tantissimo. Non avrei provato a dipingere perché è troppo difficile. Mi sarei dedicato, soprattutto, alla videoarte. Mi piace molto, passerei ore intere a riprendere con la videocamera vegetali in movimento. Ho fatto anche dei film, ma i personaggi non erano dei vegetali! Jed è uno dei pochi personaggi che interpreterei volentieri. Una cosa che non mi capita spesso, di molti ne scrivo e basta».
Dell’ispirazione di Jed dici che si avvicina spesso al “neutro” e che vive “un’esistenza a cui non ha mai totalmente aderito”. Qual è, per te, la distanza tra l’artista e la vita?
«Non aderisce alla vita, ma, più che il neutro, Jed raggiunge una sorta di bianco. L’unica cosa che gli riesce di fare è lavorare. Come diceva giustamente Flaubert: “L’arte è tempo rubato alla vita”».
I grandi maestri del Rinascimento erano imprenditori commerciali, come alcuni artisti di oggi. Siamo in un nuovo Rinascimento?
«Sì, in un certo senso stiamo vivendo una sorta di Rinascimento. Il punto in comune con quell’epoca è che quelli che hanno i mezzi ricominciano a interessarsi all’arte. A quel tempo erano i papi che compravano, oggi sono gli imprenditori».
Nel libro ci sono anche dei saggi sull’opera di Jed scritti da uno studioso asiatico: tu leggi la critica d’arte?
«Mi capita di farlo, e non è stato facile scrivere le parti da critico sul suo lavoro: le considerazioni sulla colorimetria delle opere di Jed non sono affatto una cosa semplice».
A un certo punto scrivi: “Il valore commerciale della sofferenza e della morte era diventato superiore a quello del piacere e del sesso”; lo dici per Hirst rispetto a Koons e riguardo al centro per il suicidio assistito rispetto a un bordello. Come ci sei arrivato?
«La cosa triste è che non mi ricordo che cosa mi ha colpito prima, se il fatto che Hirst valga più di Koons oppure il fatto che l’eutanasia costi molto, ma molto di più di un centinaio di puttane».
E tu cosa preferisci?
»Io, ovviamente, il bordello, ma preferisco pure Koons a Hirst. Anche se la scelta, in questo caso, è meno ovvia che nel primo caso».
“L’amore è raro”, dice il personaggio di Frédéric Beigbeder, un altro scrittore reale che hai messo nella fiction. E tu, dopotutto, ti sei definito in un’intervista alla Paris Review come un romantico: in che senso?
«I romantici non pensavano che l’amore fosse frequente. Ritenevano che l’amore fosse prezioso, ma non frequente e, beh, questo vale ancora».
Il sesso, così presente in tante tue opere, qui ha cambiato ruolo: prima era soltanto una provocazione o un modo per leggere il presente?
«Né l’uno né l’altro. Dopotutto, il sesso è comunque sesso. Non è facile scrivere una scena di sesso, descrivere quello che succede esattamente, nei dettagli, è impegnativo».
Ma in questo libro il sesso è finito in secondo piano in un modo naturale?
«No, è stato uno sforzo, non volevo che prendesse troppo spazio».
L’accenno all’immaginario sessuale più curioso che ho trovato sta in un report sui piatti consumati in una catena di hotel visitata da Jed e dalla russa Olga mentre stanno insieme: parli di “una esperienza gastronomica vintage, addirittura hardcore” per i turisti del cibo.
«Sì, per le persone che fanno queste esperienze culinarie, abituati come siamo ai formaggi pastorizzati, il fatto di mangiarne uno a base di latte crudo può essere un’esperienza vintage. I francesi sono in prima linea in questo genere di cose, tanto che nei tabloid inglesi sono ancora definiti come “frog-eater”, dei mangiatori di rane. Il termine “vintage” è del tutto realistico, i professionisti del marketing lo usano spesso, mentre per “hardcore”, in effetti, lì ho un po’ esagerato».
Come mai integri materiali diversi, dai libretti delle istruzioni per la macchina agli stralci di Wikipedia?
«Con una risposta un po’ pretenziosa, lo faccio per dar conto del mondo nel suo insieme. La risposta meno pretenziosa, invece, è che mi piace, ma ci sono sempre delle difficoltà da superare. Provo dei cambiamenti di tono, delle bizzarrie, ma c’è sempre una sfasatura nello stile. In questo libro ho usato diversi materiali grezzi, principalmente le enciclopedie. Ho fatto un po’ come faceva George Perec, un autore che amo molto».
Arriviamo al tuo personaggio, Michel Houellebecq, presente nel libro, a cui Jed dedica un quadro e che diventa fondamentale per la storia: che cosa ha significato rappresentarti? Sei stato fedele al vero Houellebecq?
«È un po’ diverso. Più scrivevo il libro e la storia procedeva e più mi distanziavo dall’Houellebecq reale: il personaggio diventava diverso da me stesso. Non ho fatto come nell’autofiction, dove credo che il processo sia inverso: ti avvicini al tuo vero te stesso o, almeno, mantieni la stessa distanza. Il personaggio Houellebecq si comporta in un modo molto ordinario, quindi c’è una certa divergenza rispetto a me».
Anche nell’arte spesso ci si autorappresenta: ci hai mai pensato mentre scrivevi?
«No. Tanto che Jed, il mio protagonista, non appare mai, non c’è nessuna sua fotografia nel libro. È una tendenza che c’è in me. Anch’io potrei essere come Jed: a un certo punto della mia vita mi sono reso conto che non avevo nessuna fotografia di me. Adesso le ho, però avrei potuto essere come lui, senza nessuna immagine. Jed, in modo anomalo rispetto al mondo di oggi, è poco narcisista».
Ma gli artisti di oggi sono dei narcisi?
«No, non direi. Certo, ci sono i membri di alcune band musicali che si mascherano e non compaiono mai. È un modo di entrare nello spettacolo un po’ differente, affermando il potere dell’invisibile. Alla base, c’è un rifiuto del narcisismo, come quando Brian Eno faceva solo il produttore. Era presente in molti dischi, ma allo stesso tempo era invisibile. C’era sempre artisticamente, ma non era identificabile».
Un invisibile vicino al neutro di Jed?
«Sì, Jed è uno di quegli artisti che non vuole comparire e ci vuole un certo carattere per riuscirci. Io, se non volessi apparire, dovrei sopportare i lamenti e i pianti della mia addetta stampa. È importante che io mi faccia vedere per il successo del libro».
A un certo punto, quasi spiegando la poetica del personaggio Houellebecq, dici che a “un mondo come narrazione” segue “un mondo come giustapposizione”: tu ci sei già arrivato a questo livello?
«Non ancora, tanto che il personaggio di Houellebecq lo definisce come il suo futuro possibile. Il mondo come giustapposizione è il modo in cui è costruita una raccolta di poesie. Una raccolta non è mai una narrazione e non lo è neanche quando cerchi di impostare un ordine: non diventa mai una narrazione, è fatta di istanti».
Ti dai una morte violenta, a metà tra uno snuff movie e una tela di Pollock: come è stato ucciderti così?
«Ho scritto quella scena in un momento in cui si parlava molto della mia vita privata e avevo l’impressione di essere lacerato, fatto a pezzi e brandelli buttati in piazza. È merito della stampa se ho immaginato di morire in quel modo».
Non ti chiedo del Premio Goncourt che hai appena vinto, ma di alcuni “colleghi” da Goncourt: Jonathan Littell, che l’ha vinto nel 2006 con Le benevole e Mathias Énard che era in corsa con te. Li conosci?
«È veramente un peccato, ma non conosco né l’uno né l’altro».
Parlando al futuro, dici che “la modernità nell’Europa occidentale era già finita da un bel pezzo”. Probabilmente è già il nostro presente, ciò che stiamo vivendo, ma dopo cosa succederà?
«Il futuro che ho descritto per la Francia, rurale e turistica, è abbastanza plausibile, diciamo che è l’ipotesi migliore. Comunque, dipende da molti fattori: una cosa strana, certamente, è che, rispetto al resto d’Europa, la Francia mantiene un buon tenore demografico».
Ti fai seppellire a Montparnasse vicino a Emmanuel Bove, scrittore di genere semisconosciuto e riscoperto da poco, con una lapide dove svetta il nastro di Möbius, un’illusione ottica dell’infinito. Hai un’epigrafe da aggiungere?
«No, se avessi voluto un’epigrafe l’avrei messa sulla lapide. Quella che descrivo nel libro è una disposizione testamentaria. Farmi seppellire vicino a Bove, invece, è stato un impeto di modestia. Ogni tanto mi succede. Adesso che ci ripenso, vorrei farmi seppellire vicino a Charles Baudelaire».