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 2011  gennaio 12 Mercoledì calendario

SE SEI UNA BELLA RAGAZZA, SE FAI IL TUO MESTIERE SERIAMENTE E NON CAZZEGGI, ALLORA SEI PERICOLOSISSIMA

(Intervista a Roberta Bruzzone)
Meglio avere a che fare con gli assassini che con i giornalisti». Parola di Roberta Bruzzone – criminologa bionda, consulente della difesa di “zio” Michele Misseri, astro nascente del C.S.I. all’italiana – dalle poltroncine bianche di Porta a Porta. Un curriculum lungo come una striscia di sangue. Se ho rimandato questa telefonata fino all’inverosimile c’è un motivo. Ma il giornale è in chiusura. Faccio il numero. Squilla.

Buongiorno, chiamo da Rolling Stone.
«Buongiorno».
Dottoressa, ha visto Chi l’ha visto l’altra sera? C’è una testimone che avrebbe riconosciuto Misseri in compagnia di una donna in macchina, nel luogo dov’è stata seppellita Sarah.
«È una testimonianza importante. Per noi è la conferma della genuinità di alcune dichiarazioni di Michele Misseri, quanto meno della sua assoluta estraneità all’aspetto omicidiario. Il discorso legato alla violenza sessuale troverebbe un ulteriore elemento che lo vanifica: è alquanto improbabile che qualcuno violenti qualcun altro in presenza di un’altra donna».
Ancora una volta succede in televisione. Non ci stracciamo le vesti, ma lei che dice?
«Che Avetrana non è il primo delitto mediatico di questo Paese, ma è stato varcato un confine importante. Si è diffuso materiale investigativo di prima mano durante la fase delle indagini preliminari e questo non si era mai verificato prima. Io mi auguro che ci sia un’indagine approfondita per capire da dove è uscito questo materiale, chi lo ha fatto trapelare e se dietro compenso, perché purtroppo, guardi, ahimè, la situazione mi lascia pensare al peggio».
Però, scusi, di quello che è stato chiamato “circo mediatico” attorno al delitto lei ha fatto parte in qualche modo. Pentita?
«È ovvio che la televisione ti dà una visibilità che è utile ai fini processuali se la sai amministrare, sennò è un boomerang pazzesco. Io ho scelto di andare a Porta a Porta, perché il loro modo di affrontare l’argomentazione è quello che mi ha dato maggiori garanzie di scientificità e di equilibrio. Mi sembra che altri programmi avrebbero potuto occuparsi d’altro».
“È nata una stella”, le ha scritto Aldo Grasso, mica tanto benevolo.
«Mi critica tanta gente che ha a che fare col caso molto meno di me. Il punto è che quando ci sono io se ne accorgono. Se sei una bella ragazza, se fai il tuo mestiere seriamente e non dai spazio a cavolate, allora sei pericolosissima. A me non frega niente, ma il livello collettivo è davvero basso. Se uno si concentra sul mio colore dei capelli, sul trucco, sulla giacca che indosso, è un problema suo».
Si può seguire un caso del genere senza essere “guardoni”? Come si fa?
«È normale esorcizzare la componente distruttiva che abbiamo dentro di noi. Le vittime che suscitano maggiore identificazione sono persone normali, ragazzine, donne, uomini che vengono attinti nel pieno della vita senza un movente particolare, mica persone dedite alla malavita. La voglia di capire, di smascherare il mostro è gigantesca, perché abbiamo bisogno di sentirci più al sicuro. Quindi la passione per l’investigazione interessa tutti noi».
Ho letto che lei giocava all’investigatore dall’età di 5 anni. A proposito di mostri, che dice dell’obiezione che questi, che sono delitti che avvengono in famiglia, sono “nostri” altro che mostri?
«C’è uno scenario chiarissimo nel nostro Paese: da 15 anni si muore molto di più per famiglia che per mafia. Noi abbiamo una possibilità statistica più elevata di cadere vittime di un crimine da parte di una persona che conosciamo, rispetto a quella di subire un crimine da parte di un perfetto sconosciuto».
Bisognerebbe ripeterlo a chi specula sulla sicurezza... Lei crede che delitti simili abbiano una spiegazione sociale oltre che personale?
«Io vedo che le persone hanno un problema nel relazionarsi. È così nel reato di stalking, di cui sono anche vittima: ho lasciato una persona e questo ha un’ossessione persecutoria nei miei confronti che è cresciuta invece che diminuire. E vedo che il livello di disagio collettivo si è alzato molto: non si contano più i casi di attacchi di ansia, i disturbi depressivi e di natura ossessiva».
Se la società fosse migliore cose del genere non succederebbero più?
«La frustrazione, l’egoismo, il vedere l’altro solo come strumento per soddisfare i propri bisogni. La necessità di raccontarsi un io e una vita sociale che invece non si possiede, il rifugiarsi in realtà virtuali facendo finta che le tue fantasie siano la realtà. Queste sono le malattie vere del nostro secolo».
Grazie dottoressa.
«Prego».