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 2011  gennaio 12 Mercoledì calendario

COL CUORE IN MANO

(Intervista ad Eminem) -
Lo studio di registrazione di eminem è in una grigia e anonima palazzina alla periferia di Detroit. All’esterno staziona un ceffo imponente, e quasi certamente armato, di nome Big 8. «Posso aiutarla, signore?» – chiede, con un tono di voce da cui non traspare nessun reale desiderio di derio di aiutarti. Dopo avergli dimostrato di non rappresentare una minaccia, è lui stesso a scortarmi dentro – oltre le telecamere di sicurezza e il portone in metallo pesantemente rinforzato – nel luogo che Eminem chiama «la mia seconda casa». Lo studio è una specie di parco giochi per adulti: fumetti del Punitore, maschere da lottatore messicano, una macchina da popcorn. Un’intera parete è occupata da un enorme dipinto raffigurante Biggie e 2Pac, mentre su quella di fronte campeggia una targa dell’isituto di ricerca Nielsen che certifica i 32 milioni di copie vendute da Eminem negli ultimi 10 anni, un risultato superiore persino a quello dei Beatles.
Lui indossa bermuda neri e una t-shirt grigia e al collo ha un crocifisso di diamanti. I suoi lineamenti sono delicati, quasi femminili e i capelli hanno una profonda, naturale tonalità castana. Ha solo una tiepida somiglianza con lo sguaiato Slim Shady biondo platino la cui missione era terrorizzare l’America. «Sono Marshall», annuncia, presentandosi. Come se ce ne fosse bisogno.
È un piovoso pomeriggio di ottobre e mancano tre giorni al 38esimo compleanno di Eminem. Sediamo in un ufficio ingombro davanti a una scrivania cosparsa di farmaci – Aleve, 5-Hour Energy – e un sacchetto di cellophan pieno zeppo di ciambelline salate. Molto si è scritto circa la proverbiale instabilità e imprevedibilità dell’umore di Eminem, ma durante la nostra conversazione lui non sarà mai meno che premuroso e gentile, anche se non esattamente in un modo che si potrebbe definire “amichevole”. Di certo, è totalmente assente quel tono beffardo che è invece onnipresente nei suoi dischi. E quando racconta della sua vita privata, viene fuori persino un insospettabile lato riservato che, parlando, lo costringe a guardare fisso il pavimento e a coprirsi la bocca con le mani.
Mentre chiacchieriamo, si alza di continuo per andare in bagno, ma la ragione è un po’ meno pittoresca di quello che si potrebbe pensare: semplicemente, Eminem ingurgita quantità industriali di Diet Coke. È quel che si dice un bevitore compulsivo e, di conseguenza, fa pipì spessissimo. L’altra sua mania sono i videogame vintage e, infatti, l’atrio dello studio è pieno di classici da sala giochi: Donkey Kong, Frogger, Space Invaders... Il suo interesse è esploso dopo aver visto un documentario (intitolato The King of Kong) su un mite ingegnere di nome Steve Wiebe e sulla sua sfida per diventare campione del mondo di Donkey Kong. Eminem dice che sta cercando di battere il record di Wiebe: difatti, tutti e sei i punteggi più alti sulla schermata del suo Donkey Kong appartengono a MBM, Marshall Bruce Mathers...

Congratulazioni per il successo di Recovery. Ti ha sorpreso?
«Non molto, a dire il vero. Avevo certamente più fiducia in questo album che nel precedente. È bello vedere che il tuo lavoro è ancora rispettato. Vincere premi è figo, ma a questo punto scrivo canzoni soprattutto perché farlo mi piace».
Beh, il successo già l’avevi sperimentato...
«Sì, ma ora mi sembra di saperlo gestire meglio. Molti dei problemi che ho avuto in passato dipendevano da me: disistima, vittimismo... Ora sto imparando a vedere il lato positivo delle cose, a non piangermi addosso».
Quando hai iniziato ad andarci giù pesante con i sonniferi e la droga?
«È successo parallelamente con il decollo della mia carriera: e pensa che fino ad allora – e avevo quasi 20 anni – non avevo praticamente mai bevuto neanche una birra... Ma quando entri nel giro dei party post-concerto non c’è modo di tirarti indietro. In principio, riuscivo a limitarmi a un uso ricreativo: tipo che, finito il tour, smettevo subito e stavo da dio. Ha cominciato a diventare un problema mentre giravamo 8 Mile: dovevamo stare 16 ore di fila su un set e avevamo dei tempi molto stretti per dormire, tra le riprese. In questi casi, succede che non riesci più a prendere sonno, ma un giorno qualcuno mi ha passato un Ambien e quella sera sono crollato come un pezzo di legno. Così mi sono detto: “Wow, ma è meraviglioso, ne voglio ancora!”. Così mi sono fatto fare la ricetta. Poi, quello che succede è che, dopo un paio di mesi, la tua tolleranza cresce e te ne servono sempre di più di pillole. E quando nel 2003 è finita la mia libertà vigilata – e non avevo più lo spauracchio del test delle urine– ho completamente perso il controllo. Nel tour Anger Management 3, nel 2005, ero strafatto tutte le sere».
Com’è andata a finire?
«Ingoiavo talmente tante pillole che non era neanche più una questione di sballare, ma di sentirmi normale. Una quantità ridicola: tipo 40-60 Valium al giorno. E Vicodin... forse 20-30? Non lo so. Mi svegliavo e subito prendevo un Vicodin extra forte. Non potevo assumerne più di uno e mezzo per volta, perché mi distruggeva le pareti dello stomaco. Verso sera poi cominciavo con il Valium: uno, due, tre, quattro... Fino a cinque ogni ora. L’Ambien mi dava il colpo di grazia, ma nonostante tutto non dormivo più di due ore per notte. È molto simile a quello che ho letto su Michael Jackson. Non so esattamente che cosa prendesse lui, ma so che si svegliava nel cuore della notte chiedendone ancora. Ed è quello che facevo io – mi alzavo a prenderne altre, due, tre volte per notte».
Dove te le procuravi? Avevi uno spacciatore?
«Quando sei tossicodipendente trovi sempre il modo. Medici compiacenti».
Hai un’idea dei soldi che hai speso?
«Non lo so, e non lo voglio sapere. Un sacco».
Poi, nel 2006, Proof è stato ucciso. Quanto ha a che fare la sua morte con la tua spirale?
«Molto. Ricordo intere giornate passate a prendere pillole e a piangere. Non riuscivo ad alzarmi dal letto. Non volevo nemmeno andare in bagno. Non ero l’unica persona in lutto – Proof ha lasciato moglie e figli – ma io ero concentrato solo sul mio dolore. Al suo funerale ero strafatto. E mi ripugna dirlo, ma mi sentivo come fosse il mio funerale. Mi odio per questo. È fottutamente da egoisti».
Fisicamente, che ti stava accadendo?
«Pesavo tra 100 e 105 chili, circa 35 in più di adesso. Andavo tutti i giorni da McDonald’s e Taco Bell. I ragazzi dietro il bancone ormai mi conoscevano, non erano nemmeno più sorpresi di vedermi. Se no andavo da Denny’s o da Big Boy e mangiavo da solo. Ero talmente ingrassato che la gente cominciava a non riconoscermi. Un giorno, ero seduto da qualche parte e ascoltavo dei ragazzi parlare. Uno diceva: “Ehi, quello è Eminem!”, e l’altro: “Naah, non può essere Eminem, è troppo grasso”. Ecco, è lì che mi sono accorto di ciò che mi stava succedendo».
Nessuno ti ha mai detto: “Em? Tutto bene? Hai bisogno di aiuto?”.
«Lo dicevano alle mie spalle. Non me lo dicevano in faccia perché mi sarei incazzato. Se avessi anche soltanto sospettato che qualcuno conosceva il mio segreto, lo avrei cacciato. Sul serio».
E arriviamo al dicembre del 2007, quando ti hanno ricoverato in ospedale dopo un’overdose di metadone...
«Le pasticche di metadone le ho avute da un tizio da cui ero andato a cercare il Vicodin. Mi ha detto: “Queste sono come il Vicodin e fanno meno danni al fegato”. Ne ho presa una sulla strada di casa e ricordo di essermi detto: “Oh, grande!”. Una botta pazzesca. Le ho finite in un paio di giorni e sono andato a comprarne altre. Molte. Del mese che ha preceduto l’overdose non ricordo un cazzo. Era dicembre e rammento solo che non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto. A un certo momento – non so nemmeno se fosse giorno o notte – mi sono trascinato fino in bagno. Ero lì che cercavo di pisciare, e sono caduto. Una gran botta sul pavimento. Ho provato ad alzarmi e, boom, sono finito di nuovo per terra. E a quel punto non mi sono più rialzato. Non so cosa sia successo di preciso, non ho mai voluto saperlo. Mi hanno detto che sono riuscito in qualche modo a raggiungere il letto, ma io non ricordo niente. Mi sono svegliato in ospedale».
Che è successo quando ti sei svegliato?
«Ricordo che cercavo di muovermi, ma non ce la facevo. Ero come se fossi paralizzato, avevo tubi da tutte le parti. Non riuscivo a parlare. I medici mi hanno detto che mi ero fatto l’equivalente di quattro bustine di eroina. Un paio d’ore ancora, e sarei morto. Credo di essere rimasto incosciente per due giorni. Quando mi sono svegliato mi hanno detto che era Natale, quindi ho chiesto di poter chiamare le mie figlie: volevo tornare a casa e mostrare loro che papà stava bene».
Che cosa è accaduto dopo?
«Ho firmato e sono uscito. Penso di essere rimasto in ospedale in tutto una settimana, ma evidentemente sono tornato a casa troppo presto. Ero uno straccio e non ero nemmeno completamente disintossicato. Non riuscivo a fare un cazzo. Un giorno ero sul divano, mi sono addormentato per una decina di minuti e mi ha svegliato un dolore pazzesco al ginocchio: non so come, ma mi ero rotto il menisco. Senza più il Vicodin, il dolore mi ha colpito dieci volte più forte di come avrebbe dovuto. Qualche giorno dopo mi hanno operato e quando sono di nuovo tornato a casa ho avuto una pesante crisi di astinenza. Quindi di nuovo ambulanza, di nuovo ospedale... Sapevo di dovere cambiare vita. Ma questo tipo di dipendenza è una cosa fottutamente difficile da superare. Infatti, neanche tre settimane dopo c’ero di nuovo dentro. È questo che mi ha veramente mandato fuori di testa. In quel momento ho capito: o chiedi aiuto o ci lasci la pelle».
Come hai fatto a ripulirti? Sei andato agli incontri tipo Alcolisti Anonimi?
«Ho provato. Ma non era una situazione semplice. Già era difficile per gli altri non far caso a chi ero io, e poi c’era sempre quello che mi chiedeva l’autografo. Non me la sentivo di andare avanti a questo modo, così ho chiamato il consulente di riabilitazione che mi aveva aiutato la prima volta. Ora lo vedo una volta alla settimana. Ho anche cominciato a correre come un pazzo fottuto: 27 chilometri al giorno. Ogni giorno. Il trucco è sostituire una dipendenza con un’altra. E poi dovevo bruciare calorie, non importa come. Pensare che in passato ci sono stati giorni in cui non riuscivo nemmeno a camminare... Nella mia testa mi immaginavo come Christian Bale in quel film... come si chiamava? L’uomo senza sonno? Una cazzata, lo so».
Chi altro ti aiuta?
«Elton John. Lui è una specie di mio mentore. Mi telefona una volta alla settimana per sapere come sto. È stata una delle prime persone che ho chiamato quando ho deciso che volevo farla finita e ripulirmi. Mi diceva cose, tipo: “Vedrai la natura come non l’hai mai vista prima”. Ed è andata proprio così! Adesso mi sorprendo per cose banali delle quali mi ero completamente dimenticato. Ad esempio: “Wow! Guarda quel cazzo di arcobaleno!”. Oppure presto attenzione a dettagli apparentemente insignificanti – gli alberi, il colore delle foglie. Cazzo amico, adesso amo le foglie. Mi sento come se le avessi trascurate troppo a lungo».
Hai mai la tentazione di ricascarci?
«Onestamente? No. La cosa più importante è non mettermi nelle condizioni di poter cadere in tentazione. E poi delle volte penso che – anche se non avessi passato tutti i casini che ho passato – comunque ormai sono troppo vecchio per la droga. Sì, è arrivato il momento di farla finita con quella roba. È ora di crescere».
Chi frequenti in questo periodo?
«Pochi amici intimi. I D12. Royce Da 5’9”. 50 Cent è uno dei miei migliori amici. In casa mia c’è una stanza in più, e lui sa che quando arriva in città quella è per lui. Ma i miei amici li vedo soprattutto qui in studio. Fondamentalmente lavoro cinque giorni alla settimana, e il weekend e nelle sere in cui posso sto con le bambine».
In Going Through Changes parli di vivere “come un recluso”. Ti senti scollegato dal mondo?
«Beh, quella canzone parla del mio periodo di dipendenza. Adesso no, non mi sento più un recluso. Esco, vivo una vita normale. È solo molto difficile. Nel mio lavoro hai sempre tanta gente attorno e, a momenti, questo può essere una vera rottura di coglioni. Quando, un paio di stagioni fa, per quattro o cinque anni non ho pubblicato nessun disco nuovo, ricordo che l’attenzione su di me aveva finito per calare un po’, e io potevo finalmente fermarmi a una stazione di benzina e andare in giro senza essere riconosciuto. Era fantastico. Potrà sembrare strano, visto che con la mia musica cerco di attirare l’attenzione della gente: ma non sono uno che ama stare, diciamo, sempre sotto i riflettori . Quando non voglio essere Eminem, ma soltanto Marshall, è molto difficile».
E la tua vita sentimentale? Esci con qualcuno in questo momento?
«Uscire tipo andare a cena o a vedere un film? No, non esattamente. E poi, in pubblico sarebbe una follia. Magari mi piacerebbe avere una nuova relazione, un giorno. A chi non fa piacere? Il problema, nella mia posizione, è incontrare nuove persone».
Nel senso che sei troppo famoso?
«No, nel senso che sono gay (ride). Ah ah ah, nooo, dai: scherzo!».
Mi stavo chiedendo quanto i tuoi problemi con tua madre e la tua ex moglie abbiano a che fare con questo. Pensi che sia difficile per te avere fiducia nelle donne?
«Sì, ho un problema con la fiducia. Con le donne, con gli amici, con chiunque. Mi chiedo sempre quali siano i loro veri motivi. Ho una ristretta cerchia di amici, gente che conosco da una vita. In questo momento va bene così. Ho attraversato due anni difficili: comincio solo adesso a ritrovare il mio equilibrio. Voglio sentirmi di nuovo sicuro prima di uscire e fare qualsiasi altra cosa. Ho bisogno di continuare a lavorare su me stesso ancora per un po’».
Perché non hai mai lasciato Detroit?
«Credo dipenda dal fatto di essere stato sballottato a destra e a sinistra quando ero bambino. Voglio che le mie figlie abbiano la stabilità che non ho avuto io. Ma forse dipende anche dalla mia natura nostalgica. Vivere a pochi chilometri da dove sono cresciuto, conoscere la gente che incontro... Sono un abitudinario. Mi piace conoscere le strade, sapere come fare per arrivare in centro: sai, sono uno che in macchina tende a perdersi. Dove vorrei andare? Se me lo avessi chiesto 10 anni fa ti avrei risposto che a 30 anni avrei smesso di fare rap. Ora penso di continuare fin quando ne sentirò la necessità. Ma sono preoccupato che arrivi il momento in cui dovrò fare qualcosa di diverso. Sarà difficile. Che cos’altro so fare? L’hip hop è l’unica cosa in cui me la cavo. Che cosa farò?»