Nathaniel Rich, Rolling Stone n. 84 gennaio, 12 gennaio 2011
SANNO TUTTO DI NOI
(Jacob Appelbaum - Il braccio destro di Assange)
Jacob Appelbaum è stato fermato all’aeroporto di Newark il 29 luglio scorso, al rientro da un viaggio in Europa. Dopo aver preso in custodia tre dei suoi telefoni cellulari (ne ha più di 12) e confiscato il suo computer, gli agenti federali lo hanno interrogato sul suo ruolo in WikiLeaks, il gruppo di dissidenti informatici che sidenti informatici che la settimana prima aveva diffuso i report top-secret sulla guerra condotta dagli Stati Uniti in Afghanistan. Il 27enne Appelbaum è stato sottoposto a un serrato interrogatorio riguardo i 91mila documenti militari resi pubblici dal sito di WikiLeaks. Quel che i Federali volevano sapere era, soprattutto, dove fosse nascosto Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks (al centro, dalla scorsa estate, di una brutta storia di molestie e violenze sessuali in Svezia, ndr). Ma hanno anche fatto pressioni chiedendogli un’opinione sui conflitti in Afghanistan e in Iraq. Appelbaum si è rifiutato di rispondere e, tre ore dopo, è stato rilasciato.
Jacob Appelbaum, che al momento del fermo indossava una maglietta con lo slogan “Be the trouble you want to see in the world”, non solo è l’unico americano di cui è certa l’appartenenza a WikiLeaks, ma è anche la persona che più di chiunque altra si è adoperata per diffondere i software utilizzati da WikiLeaks. In un certo senso, Appelbaum è una versione bizzarra di Mark Zuckerberg. Se quest’ultimo, tramite Facebook, si batte per un mondo più connesso e trasparente, il primo ha dedicato tutta la vita alla lotta per la privacy e l’anonimato. «Non voglio vivere in un mondo in cui chiunque è sempre guardato a vista», spiega Appelbaum. «Mi piacerebbe essere lasciato in pace, senza dovermi preoccupare di una serie di dati che raccontano una storia non vera».
Ormai, abbiamo affidato alla rete informazioni personali e sensibili come numeri di contocorrente, indirizzi di posta elettronica, fotografie, telefonate e ricette mediche, convinti che siano custodite al sicuro. Ma Appelbaum sa bene che non è affatto così; sa che tutto ciò non è al sicuro perché lui stesso è in grado di accedervi. Me l’ha dimostrato due settimane prima che WikiLeaks guadagnasse i titoli dei giornali per aver pubblicato un video di militari statunitensi che uccidevano civili in Iraq.
Sono stato nel suo quartier generale a San Francisco, due piani arredati con una poltrona, una sedia e un tavolino. I pochi mobili sono neri, sul muro della cucina c’è una maschera di Guy Fawkes mentre il pavimento è ricoperto di buste trasparenti contenenti valuta straniera in contanti: pesos argentini, franchi svizzeri, lei rumeni e vecchie banconote irachene con la faccia di Saddam Hussein.
Appelbaum mi spiega il funzionamento di uno dei software che ha sviluppato, Blockfinder. Dice che non è stato affatto difficile creare questo programma, anzi lo descrive come un «gioco da ragazzi», termine utilizzato di frequente da Appelbaum e dai suoi amici hacker. Comunque sia, Blockfinder permette di identificare, contattare ed eventualmente violare tutti i computer sulla faccia della Terra. Appelbaum porta la mia attenzione su uno dei suoi otto computer e digita diversi codici, attivando così Blockfinder che, in meno di 30 secondi, elenca le collocazioni di tutti gli indirizzi IP del mondo: in questo modo, potrebbe accedere a qualsiasi computer connesso a Internet.
Per mostrarmi le potenzialità del software, Appelbaum sceglie di operare in Birmania, il piccolo Stato guidato da un regime repressivo. Digita “mm”, il codice di due lettere che identifica Myanmar, e Blockfinder comincia istantaneamente a generare tutti gli indirizzi IP della Birmania. Ce ne sono 12.284, tutti gestiti da provider statali. In Birmania infatti, così come in altri Paesi al di fuori degli Stati Uniti, per accedere a Internet bisogna passare attraverso il governo locale. Appelbaum compone alcuni codici per connettersi a tutti i computer birmani, ma riceve solo 118 risposte. «Questo significa che in Birmania a quasi tutte le Reti è vietato l’accesso al mondo esterno», spiega. «Tutte tranne 118». Questi 118 computer possono appartenere solo a organizzazioni o persone che hanno ricevuto dal governo il permesso di navigare senza filtri: politici di fiducia, dirigenti delle industrie statali e servizi segreti. Seleziona una Rete a caso e prova a entrarci, ma si apre una finestra che chiede una password. Julian si fa una bella risata, perché la Rete alla quale sta provando ad accedere funziona con un router creato da Cisco Systems, un sistema pieno di falle. Violarlo sarebbe dunque un altro gioco da ragazzi. È impossibile sapere chi ci sia dall’altra parte. L’account del Primo Ministro? Il server della polizia locale? Il centro di comando dell’esercito birmano? Chiunque sia, per Appelbaum è a portata di mano. Quindi cosa pensa di fare? «Potrei entrarci,» dice sorridendo. «Ma sarebbe un reato, o sbaglio?».
Nessun altro ha fatto più di appelbaum per diffondere il credo dell’anonimato. Il suo lavoro è rappresentare pubblicamente il progetto Tor, un gruppo che promuove la privacy online assicurata grazie a un software inventato 15 anni fa dal U.S. Naval Research Laboratory. Viaggia in giro per il mondo insegnando a dissidenti politici e attivisti per i diritti umani come sfruttare Tor per evitare che i governi autoritari traccino i loro movimenti in Rete.
Appelbaum si considera un combattente per la libertà di parola. «L’unica via affinché il genere umano faccia progressi è il dialogo», dice. «Chiunque dovrebbe onorare la carta dei diritti umani delle Nazioni Unite che afferma la libertà di parola come diritto universale. Le comunicazioni anonime sono un ottimo mezzo per raggiungere questo scopo. E Tor è un ulteriore aiuto per la diffusione di questa idea». Solo l’anno scorso, Tor è stato scaricato 36 milioni di volte. Un membro di alto livello dell’esercito iraniano lo ha utilizzato per ottenere informazioni sugli apparati che impongono la censura a Teheran. Un blogger tunisino in esilio in Olanda lo ha usato invece per aggirare i censori del suo Paese. Durante le olimpiadi di Pechino, infine, i ribelli cinesi si sono affidati a Tor per impedire al governo di conoscere la loro identità. Il progetto Tor è stato finanziato non solo da colossi come Google o da organizzazioni come Human Rights Watch, ma anche dall’esercito americano secondo cui questo programma è uno strumento fondamentale per il lavoro di intelligence. Tuttavia, il Pentagono non ha gradito l’utilizzo di Tor per rivelare i propri segreti, dato che WikiLeaks funziona anche grazie a questo software che tutela l’anonimato degli informatori.
Essendo sia un dipendente di Tor sia un volontario di WikiLeaks, Appelbaum lavora a stretto contatto con Julian Assange, fondatore del gruppo. «L’importanza di Tor per WikiLeaks è innegabile», ha detto una volta Assange, «e Jake ha sempre dato tanto alla nostra causa». Lo scorso luglio, poco dopo la pubblicazione dei documenti sulla guerra in Afghanistan, Assange avrebbe dovuto intervenire all’Hackers on Planet Earth (HOPE), un’importante conferenza organizzata in un hotel di New York. Infiltrati tra il pubblico c’erano alcuni agenti federali, probabilmente in attesa della comparsa dello stesso Assange. Ma al posto del numero uno di WikiLeaks, ha preso la parola sul palco proprio Appelbaum. «Un saluto a tutti gli amici e a tutti i fan della sorveglianza nazionale e internazionale», ha esordito Appelbaum. «Sono qui con voi perché credo sia possibile un mondo migliore. Julian, purtroppo, non ce l’ha fatta a venire qui, proprio perché non viviamo ancora in quel mondo migliore. Ma vorrei fare un breve discorso agli agenti federali in fondo alla sala e seduti tra voi. Che sia chiaro: nelle mie tasche ci sono solo alcuni spiccioli, la patente e il Bill of Rights. Non ho né computer, né telefoni, né chiavette. Non avete davvero motivi per arrestarmi. E, nel caso ve lo stiate chiedendo, sono nato e cresciuto in America e non mi sento affatto felice. Non sono felice per come stanno andando le cose».
Per i 75 minuti successivi, Appelbaum ha parlato di WikiLeaks, invitando gli hacker presenti a supportare l’attività del sito. A luci spente, poi, ha abbandonato il palco scortato da un gruppetto di volontari, con la felpa nera a coprire il volto. Ma quando la sala si è illuminata si è scoperto che quello con il viso nascosto non era il vero Appelbaum, sgattaiolato da un’uscita di sicurezza sul retro. Due ore dopo, era su un aereo diretto a Berlino.
Appelbaum è rientrato in america 12 giorni più tardi, accolto all’aeroporto di Newark dai Federali. Nel frattempo, infatti, tutti i giornali avevano riportato i dettagli dei documenti pubblicati da WikiLeaks, spiegando che i report permettevano l’identificazione di informatori e potenziali disertori afghani vicini alle truppe statunitensi in guerra. Marc Thiessen, un ex collaboratore di Bush, ha etichettato il gruppo come «organizzazione criminale», sostenendo che andrebbe abbattuto proprio come Al Qaeda. Mentre per Mike Rogers, un repubblicano del Michigan, il soldato che ha passato il materiale a WikiLeaks meriterebbe la pena capitale.
A distanza di meno di 48 ore dal suo rientro, dopo aver partecipato a una conferenza di hacker a Las Vegas, Appelbaum è stato avvicinato da due agenti dell’FBI sotto copertura: «Ci piacerebbe fare due chiacchiere con te. Forse non ne hai voglia, ma a volte è meglio parlare e mettere le cose in chiaro». Da allora Appelbaum evita aeroporti, amici, sconosciuti, posti poco sicuri, e viaggia esclusivamente in automobile. Ha trascorso cinque anni aiutando gli attivisti politici a proteggersi dai governi e ora è lui a essere perseguitato.
Jacob ha una vera ossessione per la privacy perché non ne ha avuta per tutta l’infanzia. «Arrivo da una famiglia di matti,» racconta, «completamente fuori di testa». I genitori hanno lottato per la custodia del figlio prima ancora che nascesse. La madre, che pare soffra di schizofrenia paranoica, sosteneva che il marito avesse molestato il neonato quando era ancora nel suo utero. Dopo aver trascorso i primi cinque anni di vita con la mamma, Appelbaum è stato preso in affidamento dalla zia, che lo ha poi abbandonato in un orfanotrofio. Ed è lì che, a 8 anni, Jake ha violato il primo sistema di sicurezza, seguendo l’insegnamento di un bambino più grande: pulisci minuziosamente la tastiera su cui vengono digitati i codici di accesso di una porta e, dopo che il custode di turno ha composto il numero, ci soffi sopra polvere di gesso così da leggere le impronte. A 10 anni è stato affidato al padre. Purtroppo, l’uomo era eroinomane: Appelbaum ha vissuto vagando con lui per il Nord della California, alloggiando in case della carità e rifugi per senzatetto. Non gli è andata meglio quando il papà è riuscito a prendere in affitto un appartamento: tutti i cucchiai della cucina erano bruciati, e doveva stare attento a sedersi sul divano dato che ovunque c’erano aghi. Una mattina, entrato in bagno per lavarsi i denti, ha trovato una donna con una siringa nel braccio sdraiata dentro la vasca.
Appelbaum è da sempre un outsider. Da ragazzo faceva colletta nei centri commerciali; travestito, con i capelli viola, scatenava risse con i fondamentalisti cristiani e rimorchiava altri ragazzi all’uscita di scuola (si definisce queer, anche se dice di avere donne in tutti i Paesi che visita). La sua vita è cambiata nel momento in cui un amico del padre gli ha trasmesso la passione per i computer, insegnandogli i fondamentali dell’informatica: «Ho capito che non tutto era perduto. Internet è l’unico motivo per cui sono ancora vivo».
A 20 anni si è trasferito a Oakland, dove ha lavorato per la sicurezza tecnologica di Rainforest Action Network e Greenpeace. Nel 2005, pochi mesi dopo la morte del padre, è andato in Iraq, attraversando il confine a piedi per installare connessioni satellitari in Kurdistan. In seguito all’uragano Katrina, ha raggiunto New Orleans grazie a pass stampa falsi per aggirare la National Guard e dotare i quartieri più poveri della città di connessioni wireless, così che le vittime del disastro potessero registrarsi ai programmi d’aiuto statali. Al rientro a casa, ha scoperto che le tessere dei trasporti pubblici della Bay Area possono essere ricaricate all’infinito. Anziché trarne vantaggio, ha avvertito chi di dovere; ma durante il colloquio è anche venuto a sapere che tutti i dati delle tessere – numero della carta di credito utilizzata per pagare e luoghi dove i passeggeri entrano ed escono – vengono custoditi in un data-base privato: «È da irresponsabili», dice. «Pago le tasse, ma non posso sapere cosa fanno dei miei dati. Non mi pare affatto democratico».
La Rete, un tempo pensata proprio come forza inarrestabile di democratizzazione, si è trasformata invece in un mezzo fondamentale per la sorveglianza e la repressione. «Una volta che affidiamo delle informazioni a Internet,» spiega Appelbaum, «è impossibile riaverle indietro. Basta davvero poco per rovinare la vita di una persona». Per molti americani questo pericolo potrà pure sembrare astratto, ma in molti Paesi del mondo la visita di sito proibito o il testo controverso di una email possono significare carcere, tortura o morte. L’anno scorso, oltre 60 Stati hanno negato ai propri cittadini il libero accesso al web. Appelbaum mi spiega che dobbiamo prendere un taxi per andare a ritirare la posta. L’anonimato richiede enormi sacrifici: per esempio, è impensabile farsi recapitare lettere e corrispondenza a casa. E non è neanche il caso di avere il proprio nome sul citofono. Dunque, riceve la posta in una casella privata, dove un impiegato firma per lui. In questo modo, una persona può spedire ad Appelbaum un pacco che poi lui stesso manda a una seconda persona: chi invia non ha contatti con chi riceve e magari il primo non conosce neanche l’identità del secondo. Tor funziona più o meno così. Utilizzando Internet, il vostro computer si connette al server che volete contattare. Il server riconosce il vostro computer tramite l’indirizzo IP e vi trasmette la pagina che avete richiesto. Non è per niente difficile, quindi, per un’agenzia governativa o per un hacker malizioso osservare l’intero procedimento: possono monitorare il server e vedere chi lo contatta oppure monitorare il vostro computer e vedere quali siti state provando a visitare. Tor impedisce queste operazioni di spionaggio inserendo un intermediario tra voi e le pagine sulle quali cliccate.
Mettiamo caso voi vogliate inviare una email a una talpa all’interno della Guardia Nazionale iraniana: spedendola direttamente, la Rete della Guardia potrebbe individuare facilmente il vostro indirizzo IP, scoprendo il vostro nome e altre informazioni personali. Se installate Tor, invece, il vostro messaggio viene deviato attraverso un network di 2000 relay in tutto il mondo. La vostra email, dunque, rimbalza da Parigi a Tokyo e da lì ad Amsterdam per arrivare infine a Teheran. Le spie iraniane vedranno un messaggio arrivato da Amsterdam e chiunque guardi il vostro computer individuerà solo una mail spedita a Parigi. Non c’è alcun contatto diretto tra voi e Teheran. Attenzione: il contenuto del messaggio è ben visibile (per nasconderlo dovete criptarlo), ma la vostra collocazione geografica è al sicuro.
Appelbaum vive insegnando il funzionamento di Tor, spesso in segreto e senza fare distinzioni tra buoni e cattivi: «A me interessa che le persone possano comunicare liberamente. Tor non va considerato come un mezzo sovversivo: è uno strumento necessario. Tutti dovrebbero avere il diritto di dire e leggere qualsiasi cosa senza essere controllati, indipendentemente dal loro credo. Quando Tor non sarà più considerato una minaccia, avremo vinto».
Volto pubblico di un gruppo in lotta per l’anonimato, Appelbaum ricopre un ruolo piuttosto precario. Perché è nell’interesse di Tor ottenere visibilità: più computer installano il programma, meglio è. Ma Jacob deve stare attento ai possibili attacchi di hacker invidiosi, di regimi stranieri ostili o dello stesso governo americano. Ha un account su Twitter e ha postato migliaia di foto su Flickr, sempre prendendo le dovute precauzioni per nascondere informazioni private come numeri di telefono, indirizzi di posta elettronica e nomi di amici e contatti. «Ci sono diversi gradi di privacy», spiega, «ma al giorno d’oggi possiamo sapere cose che la Stasi non avrebbe mai neanche sognato. Io sto attento, ad esempio, a non inserire il mio indirizzo di casa in alcun computer. E per ogni account genero password automatiche e nuovi indirizzi email». Se perde di vista il portatile, lo distrugge e lo butta via per paura che qualcuno lo abbia infettato. E per trasportare copie di Tor da un Paese all’altro ricorre spesso a misure estreme: «Ho studiato le tecniche dei contrabbandieri», dice. Poi mi fa vedere una moneta, la lancia sul pavimento e quando si apre esce una memory card minuscola con dentro una copia di Tor. Privacy e controllo sono problemi che non riguardano solo i regimi autoritari, ma anche gli Stati Uniti che negli ultimi anni hanno accumulato tonnellate di informazioni sui propri cittadini. E le compagnie telefoniche possono localizzarci in ogni momento. «Se volesse, Google potrebbe scoperchiare qualsiasi Paese del mondo. Hanno tanta di quella roba da rovinare ogni matrimonio celebrato in America». Ma Google non è uno dei finanziatori di Tor? «Sergey Brin e Larry Page sono tranquilli. Ma mi spaventa la generazione successiva. Una dittatura benevola rimane pur sempre una dittatura. Prima o poi la gente si renderà conto che Google sa tutto di tutti: praticamente possono leggerci nel pensiero».
Preoccupato dall’affare WikiLeaks, Appelbaum si è nascosto. Sospetta di essere pedinato. Una settimana dopo il fermo a Newark, mi ha chiamato da un posto segreto. Per trovarlo ho dovuto passare tramite una serie di intermediari: «Sto usando Tor più di quanto avessi mai fatto. Sono diventato anch’io una di quelle persone che solitamente aiuto. Faccio bene a seguire i miei consigli».