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 2011  gennaio 12 Mercoledì calendario

CONTINUITÀ E ROTTURA NELLE RIVOLUZIONI ITALIANE - I

suoi lettori le avranno già fatto notare il «lapsus calami» che, in una risposta, le ha fatto scrivere Bruno per Giuseppe Bottai, confondendo il figlio col padre. Io colgo l’occasione per porle un quesito. È vero che Bruno Bottai, pur avendo superato l’arduo concorso per l’accesso alla carriera diplomatica, rischiò di non essere ammesso per il cognome che portava? E che ottenne l’ammissione solo per l’intervento di Pietro Nenni? La fonte da cui ho ricevuto la notizia è attendibile?
Enrico Nistri
enrico.nistri@libero.it
Caro Nistri, non sono in grado di rispondere, ma se la voce da lei raccolta fosse vera ne sarei sorpreso. Bottai non fu il solo nome «fascista» nella lista di coloro che entrarono a Palazzo Chigi con il concorso del 1955. Insieme a lui furono promossi anche Filippo Anfuso e Franco Ferretti. Il primo era figlio dell’uomo che era stato capo di gabinetto di Galeazzo Ciano, ambasciatore d’Italia a Berlino fino all’aprile 1945, sottosegretario agli Esteri nei diciannove mesi della Repubblica sociale. Il secondo era figlio di Lando Ferretti, brillante esponente del regime (diresse l’ufficio stampa di Mussolini e fu membro del Gran Consiglio del fascismo), ma fu espulso dal partito nel 1939 per la sua ostilità all’alleanza con la Germania e alle leggi razziali. Nel 1955 i due padri erano entrambi senatori del Movimento sociale italiano. Ricordo che il contemporaneo arrivo al ministero degli Esteri di quei tre giovani provocò qualche sorriso e qualche ammiccamento. Erano intelligenti e preparati, ma portavano il nome (penso soprattutto a Bottai e Anfuso) di personalità che dieci anni prima, se fossero cadute nelle mani dei partigiani avrebbero probabilmente perduto la vita. Come interpretare politicamente e socialmente questo fenomeno? In primo luogo conviene ricordare che la carriera diplomatica è sempre stata per molti aspetti un club o, se preferite, una corporazione desiderosa di autogestirsi e di assicurare la propria continuità con il principio della cooptazione. Il club si era disperso e diviso per qualche mese dopo l’armistizio. Alcuni dei suoi membri, passati al servizio della Repubblica sociale, erano stati puniti con provvedimenti di epurazione che furono successivamente mitigati e corretti. Vi era un piccolo gruppo di nuovi venuti, ammessi per meriti antifascisti con il metodo della chiamata diretta. Ma il club, complessivamente, non aveva perduto le sue caratteristiche e aveva ripreso a funzionare secondo le sue vecchie tradizioni e abitudini. Negli anni 50 non era impossibile incontrare nei corridoi di Palazzo Chigi Francesco Jacomoni, ex viceré in Albania, Pellegrino Chigi, «proconsole» d’Italia a Atene durante l’occupazione e qualche funzionario del ministero degli Esteri di Salò, da poco riabilitato. Ma esiste un altro fattore, non meno importante: la naturale riluttanza italiana a sperimentare coerentemente sino in fondo una vera trasformazione rivoluzionaria. Quando il Paese passa da un regime all’altro, come accadde per tre volte nel corso del Novecento, i criteri della continuità prevalgono su quelli della rottura. Mussolini creò lo Stato totalitario con i prefetti dell’era giolittiana e affrontò la crisi del 1929 con i tecnocrati usciti dalla scuola di Francesco Saverio Nitti. Alcide De Gasperi e Carlo Sforza fecero la nuova politica estera italiana con gli ambasciatori che avevano lealmente servito lo Stato durante il fascismo. I funzionari monarchici giurarono fedeltà alla Repubblica. E le grandi famiglie economiche e finanziarie attraversarono il secolo mantenendo intatto, da un regime all’altro, la loro fortuna e il loro ruolo. Molti sosterranno che questo è trasformismo, altri che è soltanto pragmatico buon senso.
Sergio Romano