Christian Rocca, Il Sole 24 Ore 11/1/2011, 11 gennaio 2011
SE A SPARARE È L’INFORMAZIONE 2.0
Nell’epoca dell’informazione istantanea, gridata e senza riscontri – alimentata a getto continuo sui blog, con i cinguettii di Twitter e dai messaggi su Facebook – gli errori, le imprecisioni, le inesattezze sono inevitabili, quasi necessari e in qualche modo giustificati dalla corsa ad arrivare prima degli altri, dalla smania di raccogliere tutti i particolari possibili, dalla necessità di nutrire la bestia famelica di notizie. La deputata democratica Gabrielle Giffords, obiettivo della strage di Tucson, è stata subito data per morta, per esempio. Sono seguite dichiarazioni di cordoglio ad ampio raggio e anche Barack Obama, leggendo su un foglio evidentemente preparato prima della smentita del decesso, si è rivolto alla deputata al passato («Gabbie era mia amica»).
In questo contesto informativo in real time dare le notizie a ritmi rock non è semplice, la percentuale di prendere cantonate è alta, ma è la stampa 2.0, bellezza, e non possiamo farci niente. Altra cosa però è analizzare, commentare, giudicare i fatti. Come ha scritto Joel Meares sulla rivista della Scuola di giornalismo della Columbia University, merita minore compassione chi invece è corso a interpretare la strage di Tucson con i propri pregiudizi, lenti politiche partigiane e la stessa violenza retorica che si imputa agli avversari.
Tre giorni dopo, al momento della stampa di questo articolo, non sappiamo ancora che cosa abbia scatenato la furia omicida di Jared Loughner. Sarebbe stato il caso di riaprire il dibattito sul facile accesso alle armi in America, in particolare delle armi da guerra come quella usata dallo stragista di Tucson (vietate ai tempi di Bill Clinton), tenendo conto che in certe zone degli Stati Uniti, come nell’Arizona di Gabrielle Giffords (favorevole alle armi private), gli spazi geografici, la vita di frontiera e la lontananza da sceriffi e polizia rende talvolta il possesso delle armi più comprensibile rispetto a quanto possa apparire a New York o in una città europea. Sarebbe stato interessante riflettere ancora una volta sugli istinti apocalittici che da sempre percorrono la società e la cultura americana. Invece, no. Senza nemmeno conoscere l’identità dell’assassino, e cinque minuti dopo la strage, ci siamo trovati nel bel mezzo della giostra delle accuse, con molti su Internet a imputare la strage a un preciso personaggio dell’Alaska, a un movimento specifico, a un agguerrito clima politico. Magari si scoprirà che l’assassino è legato a Palin, ma al momento non lo sappiamo. Anzi, a mano a mano che arrivano le notizie appare sempre meno credibile un movente politicamente riconducibile al dibattito americano o dell’Arizona. Sarebbe bastato, peraltro, documentarsi sulla deputata colpita, una democratica conservatrice che su molti temi, dalle armi all’immigrazione, dalla difesa nazionale alla politica fiscale, dal controllo della spesa pubblica al patriottismo costituzionale, è più vicina alle ossessioni dei Tea Party che all’ortodossia progressista.
L’analisi dei fatti, l’interpretazione della realtà, i giudizi sulle cose che succedono non sono un tweet. Sono una cosa seria. I grandi giornali americani, per esempio, hanno aspettato 48 ore prima di pubblicare gli editoriali di commento sulla tragedia di Tucson. Hanno atteso di conoscere i fatti, quei piccoli particolari che nell’era dell’informazione a banda larga purtroppo sembrano sempre meno necessari.
Due giorni dopo la strage, gli editoriali dei cinque principali quotidiani americani, quei commenti non firmati che esprimono la posizione ufficiale dei giornali, sono stati unanimi sul fatto specifico di Tucson nell’escludere il movente politico, la responsabilità di Sarah Palin e del dibattito politico al vetriolo. Il Washington Post ha scritto che «sembra un salto logico non provato accusare il clima politico o un individuo o un gruppo particolare di aver incitato l’assassino». Il Wall Street Journal ha chiarito che la malattia di Jared Loughner non c’entra niente con la politica. Il Los Angeles Times ha spiegato che i «commenti irragionevoli» circolati sul web sono «vergognosi e imbarazzanti» e che in questi casi «il modo giusto e razionale è quello di fermarsi, respirare profondamente, ascoltare i fatti e soprattutto condannare la violenza nel modo più fermo», specie «dopo che le prime informazioni descrivono l’assassino come uno squilibrato, più che come un politico».
Usa Today, il più diffuso quotidiano americano, scrive che «non è emersa nessuna prova che Loughner abbia una filosofia politica coerente». Il giornale-guida del mondo progressista, il New York Times, ha scritto nel suo editoriale che «è superficiale e sbagliato attribuire questo specifico atto di un matto direttamente ai repubblicani o ai membri dei Tea Party». Il Times sottolinea con forza come, in generale, certi estremismi dei Tea Party possano alimentare sentimenti di odio, esaltare i matti e fare male al vivere civile. Il Times ha ragione e si potrebbero aggiungere le ben più violente campagne contro Bush e contro Clinton. Ridurre la politica a odio dell’avversario, a denigrazione delle idee altrui, a delegittimazione reciproca è pericoloso. Sempre. Quando succede a destra e quando capita a sinistra. Ma è altrettanto pericoloso ideologizzare i fatti, anziché analizzarli sine ira ac studio.