Diego Gabutti, ItaliaOggi 12/1/2011, 12 gennaio 2011
GROSSMAN E GLI ORRORI DI LENIN
«A cadere per primi sotto il colpo furono i fanatici», racconta Vasilij Semënovic Grossman in Tutto scorre, che Adelphi (pp. 232, 11,00 euro) ristampa 25 anni dopo la prima edizione. «Caddero i distruttori del vecchio mondo. Avevano odiato la borghesia, la nobiltà, i piccoli borghesi, i filistei, i traditori menscevichi e socialrivoluzionari della classe operaia, i contadini benestanti, gli opportunisti, i voenspec o specialisti militari, la prezzolata arte borghese, i professori universitari venduti alla borghesia, i bellimbusti in cravatta che esercitavano le libere professioni, le donne che s’incipriavano il naso e si pavoneggiavano in calze di seta, gli studenti avvolti nella pretenziosa mantella foderata di bianco, i popi, i rabbini, gl’ingegneri con la coccarda sulla visiera del berretto, i poeti che scrivevano perversi versucoli sulla bellezza della natura. Essi odiavano Karl Kautsky, Ramsay McDonald; non avevano letto Bernstein, ma lo giudicavano orribile, sebbene il loro destino riecheggiasse le sue parole: lo scopo è nulla, il movimento è tutto. Avevano distrutto il vecchio mondo e ne bramavano uno nuovo, che non avevano costruito. I cuori di questi uomini, che avevano inondato la terra di tanto sangue, che avevano odiato tanto e con tanto ardore, erano infantilmente privi di rancore: cuori di fanatici, forse di dementi. Essi odiavano per amore».
Grossman comincia a descrivere e sviscerare l’anima della rivoluzione russa attraverso i ricordi e le fantasie d’un ex deportato, Ivan Grigor’evic, che esce dal recinto di filo spinato del gulag, dove ha trascorso gli ultimi vent’anni, dopo la morte di Stalin. Ma nei capitoli finali di Tutto scorre Grossman dimentica che sta scrivendo un romanzo (salvo ricordarsene nelle ultimissime pagine, ma ormai senza più crederci, come uno che abbia altro da fare e poco tempo per farlo) e adotta senz’altro la forma saggistica. È forse il primo, quando nessuno osava tanto neppure in Occidente, a coinvolgere Lenin nell’infamia totalitaria con parole che precorrono La banalità del male di Hannah Arendt («la spietata crudeltà di Lenin, il suo disprezzo per la cosa più sacra alla rivoluzione russa: la libertà, e lì accanto, dentro il petto dello stesso uomo, il puro entusiasmo giovanile per una buona musica, un bel libro»). Descrive un popolo sfigurato dalle superstizioni ideologiche e stregato da una sorta di spavento metafisico. Delatori, militanti, gentucola, voltagabbana, eroi della classe operaia come nel titolo della bella (lo sono tutte, e lo erano anche prima d’essere approvate dall’Osservatore romano) canzone di John Lennon, dinamitardi, criminali, psicopatici, impiegatucci dostoevskiani, cannibali: l’anima del rivoluzionario professionale russo, del terrorista, del cekista, dal quale si sarebbe generato l’homo sovieticus d’Alexander Zinoviev, appare multipla, agli occhi di Grossman, come la personalità di certi schizofrenici.
Grossman lavorò a questo esile romanzo dal 1955 al 1963, dedicandogli più tempo di quanto ne avesse destinato al suo capolavoro, il fluviale Vita e destino, Adelphi, pp. 1024, 34,00 euro. Entrambi i romanzi furono pubblicati in Europa, postumi e clandestini, all’epoca in cui agli scrittori sovietici (oggi sembrano favole) era impedito di scrivere anche una sola riga che fosse ispirata alla realtà anziché alla propaganda. John e Carol Garrand, specialisti americani di storia della cultura russa e sovietica, hanno dedicato a Grossman una splendida biografia, Le ossa di Berdicev. La vita e il destino di Vasilij Grossman, Marietti, pp. 488, 25,00 euro, che rende giustizia a quella che forse, dopo Varlam alamov, l’autore dei Racconti della Kolyma, è la più tormentata figura della moderna letteratura russa.