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 2011  gennaio 12 Mercoledì calendario

IL CAVOUR DI PADANIA

Proprio quando il presidente della repubblica Giorgio Napolitano sottolinea il valore dell’unità d’Italia, dal quotidiano leghista La Padania arriva una sonora randellata. Il giornale caro a Umberto Bossi ha pubblicato alcune delle pagine dell’ultimo testo dello storico Arrigo Petacco, intitolato «O Roma o morte», sparando in prima pagina: «Cavour considerava l’unità d’Italia una corbelleria».
Petacco, già autore di un assist straordinario al presidente della regione Veneto Luca Zaia, quando ha detto che «i 150 anni dell’unità d’Italia per il Veneto cadranno nel 2016, quando ricorrerà l’anniversario dell’annessione allo Stato unitario. Non ora», fa un ritratto federalista e antiunitario del politico subalpino: «Il primo governo del regno d’Italia fu costituito da Cavour il 23 marzo del 1861. Il conte, fino a poco tempo prima, era stato un convinto federalista come lo erano tutti gli altri «padri» moderati della patria, da Rosmini a Gioberti a Cattaneo. Egli considerava l’unità d’Italia una «corbelleria» alimentata da quell’arruffapopoli di Giuseppe Mazzini che collezionava soltanto aborti rivoluzionari. Ma era stato costretto a ricredersi quando Giuseppe Garibaldi gli aveva offerto su un vassoio il regno delle Due Sicilie». Facendo nascere, nello stesso tempo, gravi problemi di integrazione: «La Val Padana, per esempio, stava al passo con la modernizzazione dell’agricoltura europea grazie alla crescita delle piccole e medie aziende dotate di capitali e di attrezzature, mentre nell’ex regno delle Due Sicilie il latifondo condizionava pesantemente l’introduzione dei sistemi moderni di coltivazione e di sviluppo. All’indomani dell’unità, Piemonte, Liguria e Lombardia sfioravano l’85% del prodotto nazionale nei settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi. Il nord vantava anche la più bassa presenza di analfabeti che nella media nazionale raggiungevano il 75%». Con un quadro unitario «sconsolante, era difficile immaginare uno sviluppo omogeneo delle varie province italiane costringendole a crescere insieme. Occorreva decentrare e Cavour ne era consapevole, anche se già immaginava lo sbarramento che avrebbe opposto la burocrazia subalpina gelosissima dei propri poteri e restia a delegarli ai nuovi venuti.
Ma, in quel momento, il conte era impegnato nel tentativo di risolvere la ingarbugliata «questione romana» mediante un accordo con Napoleone III. Impegnato quindi come ministro degli Esteri, aveva affidato al suo ministro degli Interni l’incarico di sbrogliare l’altro garbuglio. Il bolognese Marco Minghetti era un economista dotato di intelligenza prontissima e di uno spirito largamente europeo e già dal 1852, Cavour gli aveva affidato il compito di studiare i problemi degli altri Stati italiani. Era quindi l’uomo giusto, essendo a conoscenza delle peculiarità e dei problemi che differenziavano le varie aree della penisola». E «per prima cosa, Minghetti creò un nuovo ente, la regione, fondendo gruppi di province e di comuni dello stesso territorio. Poi mise a punto un progetto di decentramento che eliminava il sistema centralizzato piemontese e affidava ampi poteri agli enti locali, ossia regioni, province e comuni. Questo nuovo ordinamento doveva sorgere su base elettiva tenendo conto delle tradizioni e dei costumi locali. Alle regioni doveva spettare il potere legislativo e l’autonomia finanziaria in merito ai lavori pubblici, all’istruzione, alla sanità, alle opere pie e all’agricoltura». Secondo Petacco, «esaminato con occhi moderni, questo progetto sarebbe stato provvidenziale, ma già in commissione parlamentare venne bocciato dai deputati più conservatori.
Era il 9 maggio del 1861. Cavour, preso atto con rammarico della bocciatura, decise a questo di ritirare «temporaneamente» il disegno di legge proponendosi di ripresentarlo dopo avere smorzato le obiezioni degli oppositori. Ma non ebbe il tempo di farlo. Meno di un mese dopo, il 6 giugno 1861, morì improvvisamente dopo una brevissima malattia e dell’ordinamento regionale predisposto da Minghetti non si parlò più». A proposito, «O Roma o morte» è pubblicato da Mondadori.