GABRIELE BECCARIA, La Stampa 12/1/2011, pagina 27, 12 gennaio 2011
La camera delle sepolte vive nella metropoli delle piramidi - Era una città fantasma quando Cristoforo Colombo toccò il Nuovo Mondo e davanti ai suoi resti, nel XIX secolo, i coloni americani litigavano se fossero stati i Fenici o i Vichinghi a costruirla durante qualche raid esplorativo più azzardato del solito
La camera delle sepolte vive nella metropoli delle piramidi - Era una città fantasma quando Cristoforo Colombo toccò il Nuovo Mondo e davanti ai suoi resti, nel XIX secolo, i coloni americani litigavano se fossero stati i Fenici o i Vichinghi a costruirla durante qualche raid esplorativo più azzardato del solito. C’era poi chi si spingeva oltre, evocando l’impresa sovrumana di una tribù perduta di Israele. Ma nemmeno quella possibilità frenava la furia distruttiva di agricoltori e allevatori, che, messa da parte la Bibbia, a colpi di vanga e badile spianavano ogni avvallamento e saccheggiavano i colossali «mounds» - le montagne artificiali - rubando terra, legno e tutto ciò che trovavano. Erano così numerose quelle strutture che St. Louis si ritrovò appiccicato il nomignolo di «Mound City» e ci volle quasi un secolo di lavoro forsennato per intaccare l’antico paesaggio e distruggerlo boccone dopo boccone. O quasi. Qualcosa, comunque, è sopravvissuto, a cominciare dal «Monks Mound», una specie di piramide tagliata a metà, alta l’equivalente di 10 piani, ma senza punta. Come le altre sorelle, le poche rimaste e le tante scomparse, termina con una sterminata terrazza, da cui si domina una delle zone più fertili del Nord America. Per arrivarci ci si deve impegnare e salire 156 gradini. Tanto dall’alto quanto dal basso il colpo d’occhio è impressionante: uno dei lati della base supera infatti i 230 metri di lunghezza e - spiegano gli studiosi - l’area occupata è prossima a quella della sempre celebrata Piramide di Giza: 5,3 ettari. Non è un caso se tra i volenterosi distruttori di un paio di secoli fa ci fosse anche chi giurava sull’intervento di un faraone emigrato tra gli indiani, disprezzati all’epoca come selvaggi inetti e a digiuno di qualsiasi nozione architettonica. Oggi il punto di vista è molto cambiato. Tra l’incomprensione bigotta dell’era del West e l’enfasi romantica di alcuni ecologisti contemporanei, è emersa una terza visione, segnata da forti contrasti. E’ quella di Timothy Pauketat, antropologo della University of Illinois at Urbana-Champaign. I suoi scavi stanno portando alla luce un’inaspettata metropoli imperiale, che ha spinto i sognatori a definirla una versione settentrionale di Tenochtitlán, la capitale azteca distrutta da Hernan Cortez nel 1521. In uno dei «mound» minori è stato trovato il sito sepolcrale di due adulti maschi, circondati dai cadaveri di 53 ragazze, schiave o componenti di un harem. Furono sepolte vive e lo dimostrano le falangi: grattarono freneticamente la terra, fino alla morte per soffocamento. Ancora più sconvolgente è la fossa comune che racchiudeva un gruppo di 39 uomini e donne: furono giustiziati, forse dopo un feroce rito propiziatorio. In una trincea, invece, è tornato alla luce ciò che rimane di una gigantesca cerimonia collettiva, in cui furono sacrificati quasi 4 mila cervi e fatti a pezzi almeno 8 mila vasi. Contenevano enormi quantità di mais, zucche e noci insieme con centinaia di migliaia di semi di tabacco. Per gli archeologi sarebbe la prova di una megasbornia allucinogena che, probabilmente, preludeva all’uccisione delle vittime designate. L’impero dei «mound» non ha lasciato memorie scritte, ma, secondo Pauketat e i colleghi, era un mondo segnato da «ineguaglianza, lotte di potere e una notevole complessità sociale». La storia dei nativi americani appare di colpo sotto una luce nuova, decisamente sinistra. E’ l’ascesa e la caduta di Cahokia: nata poco prima del 1000, la città toccò l’apice nel XIII secolo per sfarinarsi con la stessa rapidità con cui aveva innalzato un centinaio di piramidi di terra, legno, erba e foglie. Su quelle piattaforme dovevano sorgere templi e aree sacre e, forse, totem che proiettavano le loro ombre su una vasta comunità di volenterosi contadini. Nei momenti migliori superò i 30 mila sudditi, sparsi su un territorio intensamente coltivato. Nessuno ha ancora capito se sacerdoti e re spiassero i cieli con un accanimento simile a quello dei Maya dello Yucatan e se Cahokia sia stata realizzata come una proiezione terrestre delle costellazioni. E altrettanto ignota è la religione che le dava sostanza. Unico indizio sono i frammenti di un mantello emerso da una tomba: gli studiosi sono convinti di aver individuato il disegno dell’uccello di fuoco, uno degli animali totemici del Nord America. Ma le ipotesi restano fragili. Proprio come gli ultimi «mounds»: intaccati dalle piogge e minati dall’erosione, continuano a ridursi e potrebbero custodire per sempre i misteri dei primi americani. D’altra parte non sappiamo nemmeno come si chiamassero i loro sanguinari creatori: il nome Cahokia è un’invenzione. L’ha prestato la tribù degli Illini, che ha avuto il privilegio di occupare la zona, ma che sul passato remoto dell’attuale Illinois ha conservato un ostinato silenzio.