Roberto Zichittella, Il Riformista 9/1/2011, 9 gennaio 2011
L’ALGERIA VENT’ANNI DOPO LA RIVOLTA DEL COUSCOUS
In tanti anni di viaggi in Algeria non ho quasi mai incontrato un algerino contento. Giovani e adulti, disoccupati e intellettuali, laici e religiosi, hanno sempre avuto un buon motivo per lamentarsi. Era così vent’anni fa e ben poco è cambiato. Gli algerini si lamentano dell’economia, della violenza, della politica, della corruzione, dei sogni traditi, della mancanza di futuro. Sono stanchi. Qualcuno si rassegna, altri si ribellano.
La ribellione è quella dei giovani che vediamo in queste ore nelle strade di Algeri e di altre città del Paese. Una ribellione rabbiosa, fatta di barricate, pietre, devastazioni, scontri con la polizia. E nella quale, purtroppo, si contano i primi morti. Almeno tre, per ora.
la rassegnazione, invece, la avverti soprattutto fra i vecchi combattenti della guerra di liberazione. Quelli che hanno dato il sangue per un’ Algeria indipendente, che sognavano diversa.
Akila Ouared è una di questi combattenti. Madre di cinque figli, si è unita al movimento di liberazione quando aveva vent’anni, nel 1956. Dopo l’indipendenza non si è mai stancata di lottare per la democrazia e per i diritti delle donne. «Guardo all’Algeria di oggi con amarezza», confidò un giorno mentre al volante affrontava con brio il traffico caotico di Algeri. «Avevamo un progetto di società moderna e democratica, nella quale tutti potessero esprimersi in modo pacifico. Invece abbiamo avuto il terrorismo, un’economia che ha arricchito pochi corrotti e lasciato troppa gente nella povertà, un sistema politico bloccato e i diritti delle donne calpestati. Un vero insulto alla memoria di chi ha dato la vita per questo Paese».
Questa saldatura fra la rabbia dei giovani e le disillusioni degli anziani fotografa il dramma dell’Algeria odierna. Non è ancora chiaro quale sbocco potrà avere la rivolta di queste ore.
Porterà solo alla repressione o aprirà la strada alle riforme attese da troppo tempo? E i fanatici barbuti, gli islamisti radicali, si metteranno a cavalcare la rabbia per riconquistare il centro della scena?
La memoria corre al 1988. Anche allora in Algeria scoppia una rivolta definita “del couscous”. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità (in particolare della semola, ingrediente principale del tipico piatto arabo) scatena in tutto il paese dei moti popolari. Anche allora, come oggi, dal quartiere di Bab el Oued la contestazione si propaga nelle principali città del Paese e ai primi ottobre l’Algeria vive una settimana di fuoco. La risposta del governo è durissima. Viene proclamato lo stato d’assedio e l’esercito spara sulla folla. Il bilancio finale è tragico. Le stime ufficiali contano 159 morti, ma le vittime potrebbero essere quasi 600.
Anche in quei giorni di ottobre il carovita fa da detonatore a una situazione sociale già esplosiva. Un reportage di Le Monde del luglio del 1987 fotografa una gioventù algerina allo sbando. Divisa tra pochi privilegiati: gli tchitchis, (i “figli di papà”) e gli “haittites”, cioè i “guardiani dei muri”, i ragazzi del muretto che ciondolano per ore nelle strade.
La “rivolta del couscous”, nonostante la repressione sanguinosa, dà una scossa al regime sclerotizzato del partito unico, il Fln uscito vincitore dalla guerra di liberazione. La sera del 10 ottobre il presidente Chadli Benjedid rivolge un discorso alla nazione e promette «riforme politiche». La promessa viene mantenuta. Nel febbraio del 1989 è varata la nuova Costituzione. I richiami al carattere socialista dello Stato diventano sfumati, il ruolo dell’esercito viene ridimensionato. Finisce l’era del partito unico e si dà via libera al pluralismo. In breve tempo spuntano sulla scena una ventina di formazioni. Nei media si parla di una versione algerina della perestrojka di Gorbaciov. Le redini del potere, però, restano saldamente in mano agli uomini del Fln. «In realtà in Algeria», scrive Le Monde Diplomatique, «non ci sono venti partiti politici, ma il partito del Fln e diciannove associazioni».
Giocando sulle contraddizioni di una riforma incompiuta, si affacciano sulla scena i volti barbuti dei leader islamisti. Come lo sceicco Abassi Madani, capo del Fis, il Fronte Islamico di Salvezza. Legalizzato nel settembre del 1989, il Fis conquista in breve tempo le menti e i cuori di molti giovani algerini. Madani è convinto che il Corano non sia in contrasto con la modernità e il progresso. Ripete che l’Algeria ha bisogno di politici onesti, di scuole efficienti, di uno sfruttamento razionale delle risorse economiche.
Il messaggio seduce. Nell’aprile del 1990 il Fis porta nelle strade di Algeri decine di migliaia di persone. E’ solo l’anticipo di quanto accade nelle elezioni locali del 12 giugno,quando il Fis si impone con il 54 per cento dei consensi, mentre il Fln non arriva al 30.
Ricordo che in quella estate del 1990 gli islamisti sembravano avere in pugno Algeri. Le strade brulicavano di giovani uomini barbuti, vestiti con lunghi camicioni bianchi, e di ragazze con il viso coperto dal velo. Li vedevi ovunque. Nei vicoli della casbah così come a Kouba o Bab el Oued, i quartieri in cui il Fis dettava legge. Le preghiere del venerdì erano un’ impressionante dimostrazione di forza. Le moschee non riuscivano a contenere tutti i fedeli e centinaia di uomini si inginocchiavano nelle strade, mentre le voci amplificate dei muezzin proclamavano «Allah akbhar», Dio è grande.
Poi si sa come andò a finire. Nel 1991 il Fis trionfa nel primo turno delle elezioni legislative. Le elezioni vengono annullate prima del secondo turno. Esplode la rabbia degli islamisti. Si radicalizza lo scontro fra lo Stato e i gruppi integralisti e per l’Algeria comincia un decennio di terrore, attentati e violenze, con decine di migliaia di morti, forse 100 mila.
E’ uno scenario che può ripetersi? Se lo chiede anche Omar Belhouchet, direttore del quotidiano El Watan, un giornalista coraggioso sfuggito a un paio di attentati. Lui si è salvato, ma la moglie è morta di crepacuore. «Siamo a un nuovo ottobre 1988? Qualcuno sta manipolando i giovani nelle strade?», scrive. Tra i giovani dietro le barricate di Bab el Oued, in questi giorni, è stato visto (e a quanto pare arrestato) Ali Benhadj, storico numero due del Fis. E’ un segnale preoccupante, ma si stenta a immaginare un ritorno al passato. Gli algerini hanno sofferto troppo per pensare che siano pronti a gettarsi nuovamente nelle braccia dell’Islam radicale.
L’unica via di uscita sono riforme profonde, ma l’imbolsito presidente Abdelaziz Bouteflika non sembra più l’uomo giusto per realizzarle. «L’autoritarismo ha fatto il suo tempo», scrive Belhouchet, «e i nostri dirigenti politici devono prenderne atto. Altrimenti, arriverà il peggio».
Chissà se in queste ore anche il presidente tunisino Ben Ali - avvitato alla poltrona da 23 anni - si sta rendendo conto che l’autoritarismo ha fatto il suo tempo. Di sicuro nessun giornalista glielo può ricordare, perché in Tunisia la libera stampa è imbavagliata e non c’è spazio per le voci critiche.
La Tunisia si trova su una polveriera. L’economia è meno ingessata di quella algerina, c’è una discreta crescita, ma la disoccupazione resta pesante, soprattutto fra i giovani di età compresa fra i 14 e i 25 anni, che sono oltre la metà della popolazione. Le ragioni del malcontento dei tunisini sono simili a quelle dei loro coetanei algerini: la mancanza di lavoro e di prospettive. Ma in Tunisia c’è anche un’ansia di libertà che per certi aspetti ricorda quella dei giovani dell’ “onda verde” iraniana. La rivolta non è solo contro i rincari alimentari, ma anche contro la censura che soffoca il dibattito e la libertà di espressione.
I blog, Facebook, la musica rap diventano le uniche forme di espressione, ma la censura si mantiene in agguato. Anche gli Stati Uniti scendono in campo per vie diplomatiche. Il Dipartimento di Stato ha convocato l’ambasciatore tunisino a Washington. Gli è stato chiesto «il rispetto delle libertà individuali, in particolare in materia di accesso a internet».
La protesta non sta coinvolgendo solo i giovani. L’altissima adesione degli avvocati tunisini allo sciopero di categoria è un segnale da non sottovalutare. Si aprono crepe in un sistema di potere che appariva monolitico. Quel potere che nel Maghreb la gente spesso definisce in francese, le pouvoir. Cioè qualcosa di lontano e indefinito, estraneo, quasi metafisico.
Anche ieri El Watan titolava in prima pagina: «Le pouvoir affronta la piazza». La sensazione è che questa volta non sarà facile, per i dinosauri della nomenklatura, a Tunisi come ad Algeri, cavarsela con riforme di facciata o calmierando i prezzi. Il grido che sale dalla piazza è «barakat», basta! Soffocare questo grido rischia di essere una missione impossibile. Come spegnere un vulcano.