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 2011  gennaio 09 Domenica calendario

NELLA POLVERIERA ALGERINA SCOPPIA LA GUERRA DEL PANE - A

poca distanza dall´Italia, potremmo dire sotto i nostri occhi, il 2011 inizia con un ritorno al futuro. Comincia con le sommosse degli affamati algerini, qualcosa che avevamo già visto nella primavera del 2008, quando il costo dei generi alimentari di prima necessità raggiunse nel mondo quota 213.5, vetta mai toccata nel trentennio precedente.
Tale fu l´allarme che in quel giugno del 2008 i capi di Stato e di governo dei maggiori Paesi convennero a Roma, riuniti dalla Fao; e da quel palcoscenico mondiale lanciarono angosciati appelli, annunciarono iniziative grandiose. E poiché in tali occasioni largheggiare è gratis, promisero di sradicare la fame dal pianeta. A questa simpatica esplosione di buoni sentimenti seguì, nei trenta mesi successivi, il nulla, o comunque molto poco, certo non abbastanza per impedire che lo scorso dicembre il paniere del cibo stabilisse un nuovo record, 214.7. Probabilmente in Italia neppure ci siamo accorti che una siccità in Russia ha fatto schizzare i prezzi del grano del 4% in tre mesi; e l´impennata dei futures sullo zucchero ci è parsa soprattutto una buona occasione per investire. Ma in Paesi come l´Algeria questi sbalzi significano, se non fame, almeno disagio sociale. E il disagio può diventare facilmente collera quando i sofferenti percepiscono il loro governo come indifferente, avido, inetto. Se poi un´organizzazione politica riesce a prendere le redini di quella collera, allora nasce una situazione pre-rivoluzionaria.
È questo che sta accadendo in Algeria? Probabilmente no. O non ancora. Con il solito mix di bastoni e carote - un annunciato intervento per calmierare i prezzi, una repressione poliziesca vasta e determinata - nei prossimi giorni il governo potrebbe riuscire a sedare la ribellione prima che diventi moto rivoluzionario. In questo caso le cellule islamiste sicuramente all´opera in queste ore dovrebbero attendere un´occasione più propizia per tentare di aizzare una sollevazione contro il regime di Bouteflika. Ma faremmo molto male a continuare ad ignorare quanto sta accadendo in casa dei cosiddetti "Paesi islamici moderati", alias "amici dell´Occidente", come l´Algeria o come la Tunisia, anch´essa in subbuglio in queste giornate. Faremmo male, non fosse altro perché una quota rilevante delle nostre forniture di idrocarburi origina dai pozzi algerini e passa per il territorio tunisino. È lì il rubinetto che non deve finire in mani sbagliate.
La rivolta algerina somma due questioni, l´una globale e l´altra nazionale. La questione globale è l´aumento dei generi alimentari, e, inutile illuderci, non ha soluzione. Richiederebbe una governance mondiale che nessuno vede all´orizzonte. Inoltre è causata anche da fenomeni temporanei (siccità, inondazioni, congiunture finanziarie) e non è omogenea (per buona fortuna dell´Asia, dal 2008 ad oggi il prezzo del riso è caduto del 7%). Ma dovremmo finalmente fare i conti con il fatto che la globalizzazione, sempre sia benedetta, ogni anno sottrae all´indigenza l´1 per cento della popolazione mondiale; e nessuno può negare a quei sessanta milioni il diritto di festeggiare con un pranzo decente. Però questo cambiamento nei consumi alimentari provoca un aumento della domanda cui spesso corrisponde un aumento dei prezzi, se l´offerta non riesce a starle dietro; e a soffrirne sono sempre i più poveri.
La questione più propriamente algerina (e tunisina) si riassume così: l´Occidente, e l´Italia in prima linea, non ha uno straccio di strategia per sbloccare lo stallo nei Paesi musulmani dove governi "amici" sono ormai arrivati a fine corsa. Quei regimi non hanno più fiato. Sono soltanto un blocco di potere che difende i propri interessi con le unghie e con i denti. L´unica prospettiva che riescono a darsi è una grottesca "Repubblica monarchica" nella quale a Mubarak succederebbe un Mubarak (il figlio), a Bouteflika un Bouteflika (il fratello), a Gheddafi un Gheddafino, al tunisino Ben Ali un rappresentante della famiglia.
Per quanto alcuni di questi leader godano ancora di un certo consenso, è venuto meno il patto sul quale avevano fondato la propria offerta politica: nessuna o poca libertà contro istruzione scolastica, lavoro, assistenza sanitaria. Stato di polizia contro stato del benessere. La rivolta tunisina è chiamata la "ribellione dei diplomati" perché ne sono protagonisti giovani istruiti e senza lavoro. Dramma mondiale, si dirà. Però intollerabile quando il regime, ancorché corrotto e incapace, oppone a chi lo minaccia soltanto una violenza pavloviana. Questo l´Europa preferisce ignorarlo, per non pregiudicare affari e forniture. Tace. Si impegna a difendere le minoranze cristiane. Però non si adopera perché siano tutelati i diritti minimi di ciascuno, quale che sia il suo credo. È un´Europa tribale, non liberale. E miope, perché con la sua rinuncia si aliena proprio quei settori delle società musulmane che sarebbero il suo alleato naturale, e in futuro, forse, il potere.