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 2011  gennaio 11 Martedì calendario

LA SCUOLA NON SUPERA LA PROVA-GENITORI - UNA SCRIVANIA

per due lunga poco più di un metro. Sedie di legno traballanti che sembrano disegnate dalla lega italiana per la scoliosi. Un ufficio di quarantacinque metri quadrati da condividere con 25 colleghi. Muri scrostati. Cessi senza porte. Vetrate coperte di giornali perché non ci sono le tende. Temperatura di inverno intorno ai 16 gradi. E soprattutto niente aria condizionata. Andremmo a lavorare in un luogo così? Neanche per sogno, faremmo (giustamente) le barricate, chiameremmo i sindacati. Eppure in un “ufficio” come questo, mandiamo a lavorare ogni giorno i nostri figli. Senza fiatare.
LA GIORNATA
DEI “GRANDI”
Queste sono le nostre scuole oggi. E nessuno dice niente. Anche perché forse non ce ne ricordiamo più. O magari perché da decenni non mettiamo davvero più piede in un’aula. Lasciamo i figlidavantialcancelloevia,abbiamoaltrecosepiù importanti cui pensare. Al massimo ci dedicheremo al colloquio con i professori, ai voti. Giusto il tempo necessario per sentirci bravi padri e madri e magari sparare una bella ramanzina: “Impegnati di più”, “Devi stare attento”, “Pensa al tuo avvenire”. Proprio quelle frasi fatte che magari una volta ci sentivamo dire dagli adulti e ci facevano diventare paonazzi di rabbia. E che adesso, senza pensarci, ripetiamo,comefacesseropartedelnostroruolodi “grandi”.
Ma come sono davvero i luoghi dove i nostri figli passano una buona parte della loro vita e dove dovrebbero imparare a diventare adulti? C’è un solo modo per scoprirlo. Andarci. Passarci qualche ora, come se di nuovo fossimo ragazzi.
Ecco l’esperimento del Fatto Quotidiano: portare a scuola di nuovo gli adulti. Il primo passo è stato scegliere l’istituto giusto. La tentazione era di chiedere ospitalità a una di quelle scuole che sembrano uscire da un bombardamento. Ce ne sono centinaia in Italia, una manna per scrivere un articolo facile facile. Ma sarebbe stato troppo semplice, come sparare sulla Croce Rossa. E poi non avrebbe significatoniente.No,lanostra“provasuibanchi”doveva svolgersi in un istituto normale, uno di quelli che funzionano decentemente, almeno secondo i parametri italiani.
Così un giorno eccoci in una scuola superiore del Ponente genovese. Un istituto scelto a caso, con un buonnome,unalungatradizione,frequentatoquotidianamente da oltre 400 alunni. Certo, la classe che si presenta all’appuntamento fa sorridere: invece di ragazzi con felpe sgargianti, minigonne, orecchini e quegli occhi che sembrano pronti a infilarsi dentro tutta la vita, arriva un gruppo di signori distinti. C’è Alessandro, affermato commercialista genovese, reduce da una riunione come tradiscono il completo grigio e la cravatta regimental. PoiClaudia,unarchitettochedividelesuegiornate facendo progetti per edifici e per il futuro dei suoi tre figli. Riccardo per un giorno ha lasciato l’ufficio elegante della sua impresa. Quindi Roberto, Matteo , Alessandra. E infine il cronista che dopo venticinque anni dal giorno della maturità si era affacciato solo di sfuggita in un’aula.
La classe di quarantenni (Claudia è ancora nei trenta, a dire la verità) si compone. Sembra un momento come gli altri, giusto il tempo di spiegare l’esperimento, di salutare il bidello… anzi, l’operatore scolastico.Maappenasispalancalaportadellaclasse ecco che succede qualcosa. Sembra di essere entrati nella macchina del tempo: gli “studenti” vedono i banchi vuoti, pronti ad accoglierli e subito negli occhi di tutti vedi un attimo di sorpresa, come se le pupille facessero fatica a mettere a fuoco l’immaginechehannodavanti.Cisisoffermaunattimo a guardare, ognuno in quelle sedie vuote cerca nomi e volti che chissà dove sono finiti. Proprio come ilprimogiornodiscuola.Perunattimopensiadove devi sederti, pensi che da quella scelta potrebbe dipendere la tua vita: le amicizie, gli amori. Tutto. Allora ecco che come trent’anni fa ci si stipa tutti in fondo, spalle al muro, dove il professore non arriva a vedere. È più forte di te, un istinto atavico che meriterebbe di essere studiato dai sociologi: la sindrome da ultimo banco.
Il professore, un signore sulla sessantina, si sistema allacattedra.“Sembratebambini”,sorrideMario,al confine con la pensione. E davvero pare che i decenni non siano passati: tocchi i banchi, alcuni così vecchi che ci trovi il buco per il calamaio, ti sistemi sulla sedia e in un attimo ritrovi le misure. Le gambe, le braccia ripetono movimenti che non pensavano di aver conservato. E affiorano pensieri, perfino parole. Senza pensarci si comincia a parlare sottovoce.
DUE RAGAZZI
IN 117 CENTIMETRI
Ma guardi la cravatta di Alessandro e capisci che qualcosa non quadra. Il cronista si specchia nei vetri e trova l’immagine di un signore con un ciuffo di capelli bianchi. E Claudia è troppo elegante, si rigira tra le dita la fede che porta all’anulare.
Alt, questo non è un amarcord. Siamo venuti qui per un altro motivo, tocca al cronista cercare di riportare la disciplina. Riccardo, che cosa ti sembra? Ricki – lasciamogli almeno il soprannome del liceo – si sistema sulla sedia. “Certo, se penso al mio ufficio… niente poltrona anatomica e regolabile, niente scrivania di due metri per uno. E nemmeno un cassetto, non so come facevo a far stare ogni cosa sotto il banco, in quello spazio di pochi centimetri quadrati”. Già, basta una mezzora e i primi effettideltestsifannosentire:Stefanochehal’ernia del disco comincia a contorcersi sulla sedia minuscola. Alessandro che è un omone di un metro e novanta – come parecchi ragazzi di diciotto anni – è un groviglio umano.
Dettagli? Mica tanto. Basta prendere un metro per accorgersene: i banchi misurano 117 centimetri di lunghezza per 43 di larghezza. Sono alti 72 centimetri. Saranno degli anni Sessanta, oggi l’altezza mediadegliitalianièunmetroesettantacinqueper i maschi (come si dice a scuola) e un metro e sessantadue per le femmine, ma in Friuli, per dire, gli uomininormalmentesfioranoilmetroeottantaele donne non di rado arrivano a un metro e settanta. Provate un po’ voi a sistemarli su queste sedie che andrebbero bene per un bambino: la spina dorsale diventaunserpente.Sarannocontentiortopedicie produttori di busti.
Maèsoltantol’inizio.Pensateaivostriuffici,aquanto vi fa patire la presenza di quei colleghi accanto a voi.Adessomisuriamol’aula:cinquemetriemezzo perotto.Comedirepocopiùdiquarantametriquadrati . Provate a immaginare di trovarvi in venticinque–sevabene–piùprofessoreacondividerespazio e aria con questa piccola folla: fanno meno di due metri quadrati a testa. Alessandro comincia ad allargarsi la cravatta.
Se si dirada la nebbia della malinconia, sembra davvero povera quest’aula. E non è per il pavimento di formica. È che proprio non c’è niente. “Le pareti sono vuote”, si sorprende Claudia. Già, nemmeno quelle cartine geografiche nate già vecchie, con la Germania divisa in due, addirittura con l’Abruzzo e il Molise che facevano una regione sola. Sempre marrone sulle mappe. Ma intanto che importava, servivanoperimpararelageografia,masoprattutto per esercitare i sogni: l’Africa con quelle città dai nomi impronunciabili (Kisangani, Antananarivo), con quella scritta grande… Sahara. Poi l’Oceano che era una macchia blu grandissima dove ti vedevi a bordo di enormi transatlantici. E dall’altra parte l’America. Oggi niente, sulle pareti che una volta erano bianche e sono diventate grigie vedi soltanto le macchie di umidità.
A diciotto anni, però, ti basta niente. Guardi dalla finestra e trovi ovunque pensieri. Nella memoria di tutti noi c’è un albero che cercavamo sempre nelle ore di noia oppure una casa lontana dove ci rifugiavamo mentre il professore scorreva il registro a caccia di una persona da interrogare. Ma qui è davveroimpossibile:ivetrisonocopertidavecchifogli di giornale. “Non avevamo i soldi per le tende”, allarga le braccia il professore. I pochi riquadri ancora liberi sono opachi per gli anni e la polvere. Insomma, vietato guardare fuori.
Davvero difficile definire accogliente questa stanza: grigia, senza luce, fredda. Stefano passa l’indice sul pavimento per un “test di pulizia”: il polverometro è grigio, poteva andare peggio, anche se nei nostri uffici pretenderemmo dieci passaggi di lucidatrice. Claudia intanto fa per rimettersi il piumino:“Maquantigradicisono?”.Iltermometrosegna 16 gradi, il riscaldamento c’è, ma arranca. Chissà a giugno quando il sole d’estate batte sui vetri e non c’è l’aria condizionata.
E poi i banchi: tutti smangiati dal tempo e dal lavoriodeglistudenti…laportaèunagruviera,piena di toppe di compensato, squarciata a pugni e calci. Mario ci ricorda: “La colpa non è soltanto della scuola… qui anche i ragazzi fanno la loro parte”. Sì, vero, però la classe di quarantenni non si sente di condannarli. “Indisciplinati”, ti dicevano una volta i professori e magari avevano anche ragione, ma oggi pensi soprattutto a quella forza che da ragazzo ti senti dentro e oggi… chissà dov’è andata. Ti vengono in mente le splendide e appassionate pagine di Sandro Onofri, il professore scrittore. Esistono anche bambini “stronzi”, scriveva, ma non per astio. Anzi. Ci metteva in guardia dalla facile indulgenza che alla fine ci porta a vedere i ragazzi come una massa indistinta, come una specie diversa. Buona per vivere anni in aule dove tu non passeresti neanche mezzora.
Vero, non tutti i professori sono come Onofri. Però molti sì, nonostante tutto. Si accontentano di uno stipendio ingiusto, di una “scrivania” tutta storta di 128 centimetri per 67, con cassetti sono bloccati, inservibili. Di una sedia con un bracciolo solo. E se gli studenti qui ci passano cinque anni, Mario ci ha trascorso quasi una vita. Allora pensi al film francese“Essereoavere”diNicholasPhilbert,conquel maestro e attore che accompagnava i bambini verso l’ultimo giorno di scuola sapendo che alla fine ci sarebbe stato un piccolo tradimento: per loro si preparava la vita, per lui un altro anno di lezioni.
ESPERIMENTO
RIUSCITO
Il banco, la cattedra. Oggetti che ormai stavano nella memoria. E la lavagna con il gesso, da quanto non respiravamo quella polvere… “Non ci sono le lavagne luminose?”, chiede Claudia. Mario sospira: “Dovevano arrivare. Le avevano promesse”. Così come la geografia della scuola: l’aula e poi i luoghi dove scappare, i corridoi e i bagni.
“Posso andare al servizio”, chiede Riccardo sorridendo. “Vada”, risponde Mario il professore. Oggi si chiamano toilette, ma la parola giusta sarebbe cessi. Almeno, si dirà, non ci sono più le turche che ti obbligavano ad acrobazie circensi. Però manca un piccolo dettaglio: le porte. Va bene, le hanno danneggiateiragazzi,mapoinoncisonomaiisoldi per ripararle. Insomma, chi ha bisogno di privacy è meglio che vada in bagno prima di entrare a scuola nel bar all’angolo della strada.
La palestra è decente, pure se così diversa dai templidelfitnessdovetantidinoisborsanocentinaiadi euro per mantenersi in forma. E i computer, uno per ogni alunno, come hanno promesso governi di ogni colore? Potrebbe andare peggio, sono 130 (collegati a Internet), uno ogni tre ragazzi.
Il cronista tenta alcune domande: gli impianti sono a norma? E le barriere architettoniche? E l’agibilità dell’edificio? Mario allarga le braccia: “Qui stiamo abbastanza bene. L’impianto elettrico è a norma e le barriere architettoniche sono state eliminate, i soffitti dei corridoi sono recenti”. Aggiunge: “Abbiamoperfinomessoglispecchisolari”.Unpo’per produrre energia elettrica, un po’ come segno di fiducia. Per aggiustare le porte ci si è dovuti auto-tassare. Finanziamenti: zero. Mancavano i soldi per il telefono.
La lezione è finita. La prossima, chissà, forse sarà tra trent’anni. Niente campanella, però. Ci si avvia per i corridoi vuoti in silenzio. Si torna al lavoro. Ma allora, voi andreste a lavorare in un ufficio così? “No, certo che no”, rispondono gli allievi brizzolati. Eppure noi tutti accettiamo che i nostri figli passino qui la loro vita. Chissà forse anche perché devono scontare quell’energia che noi non abbiamo più. Il cronista e i suoi compagni di un giorno sarebbero prontiaunbarattodegnodiFaust:unbancodacontorsionisti, un’aula che sembra una cella, pur di riavere i miei vent’anni. La memoria, chissà come, ha salvato quei cinque minuti di fronte alla compagna con gli occhi trasparenti e ha cancellato angosce, timori, malinconie travolgenti. Nessuno ricorda quella frase fulminante di Paul Nizan: “Avevo vent’anni,nonpermetteròanessunodidirechequesta è l’età più bella della vita”.