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 2011  gennaio 09 Domenica calendario

L’AMERICA SENTE IL VENTO DEL DECLINO

La sfida che la Cina muove agli Stati Uniti è più seria delle precedenti per ragioni economiche e demografiche. L’Unione Sovietica è crollata perché il suo sistema economico era gravemente inefficiente, una debolezza fatale per lungo tempo mascherata dal fatto che l’Urss non aveva mai cercato di competere sui mercati mondiali. La Cina, al contrario, ha dato prova della sua forza economica su scala globale. Da circa un trentennio la sua economia cresce, in media, dal 9% al 10% all’anno. Oggi è il primo esportatore e il maggiore produttore a livello mondiale, e poggia su oltre 2,5 miliardi di dollari di riserve estere. I prodotti cinesi sono competitivi in tutto il mondo. Non c’è paragone con il colosso economico sovietico dai piedi d’argilla.

Naturalmente anche il Giappone ha conosciuto molti anni di boom economico ed è ancora un importante esportatore. Ma non è mai stato un plausibile candidato per il numero uno. I giapponesi sono meno della metà degli statunitensi quindi, perché l’economia nipponica sorpassi quella americana, il giapponese medio dovrebbe essere due volte più ricco dell’americano medio. Impossibile. Al contrario, i cinesi sono più del quadruplo degli americani. La previsione di Goldman Sachs, secondo cui nel 2027 l’economia cinese avrebbe superato gli Usa, è precedente alla crisi economica del 2008. Al ritmo attuale, la Cina potrebbe salire sul podio molto prima. La sua forza economica già le permette di sfidare l’influenza americana ovunque. La Cina è il partner commerciale d’elezione di molti governi africani e il più grande partner di potenze emergenti come Brasile e Sud Africa. Inoltre si sta facendo avanti per comprare le obbligazioni dei membri squattrinati dell’eurozona, come la Grecia e il Portogallo.

L’AMERICA È ANCORA PRIMA

IN TUTTI I CAMPI

Per il momento. Attualmente l’America ha la più grande economia mondiale, le università più prestigiose e molte delle maggiori multinazionali. Inoltre la sua forza militare è incomparabilmente superiore a quella di qualunque rivale. Le spese militari statunitensi sono quasi pari alla somma di quelle di tutte le altre nazioni messe insieme. Per non parlare del patrimonio intangibile dell’America. La combinazione di senso imprenditoriale e capacità tecnica ha consentito al paese di dominare la rivoluzione tecnologica. Ancora oggi immigrati di talento raggiungono a frotte i lidi americani. E la presenza di Barack Obama alla Casa Bianca ha potenziato enormemente il soft power del paese. Nonostante tutti i suoi problemi, i sondaggi mostrano che Obama resta il più carismatico leader mondiale, Hu Jintao non gli si avvicina neppure. L’America brilla in tutto il mondo anche per il fascino delle sue industrie creative (Hollywood e simili), i suoi valori, la crescente universalità dell’inglese, la forza di attrazione del Sogno Americano.

Tutto vero, ma meno solido di quanto si possa pensare. Le università Usa restano un patrimonio formidabile. Ma se l’economia non genera posti di lavoro, i brillanti laureati asiatici che riempiono le facoltà di ingegneria e informatica della Stanford University e del Mit torneranno in gran parte a casa. Nell’ultima classifica delle maggiori imprese mondiali della rivista «Fortune», tra le prime dieci ce ne sono solo due americane, Walmart al primo posto ed ExxonMobil al terzo. Ne troviamo invece già tre cinesi: Sinopec, State Grid, e China National Petroleum. Anche il fascino dell’America potrebbe declinare se il paese perde la sua aura di opportunità, prosperità e successo. E nonostante molti stranieri siano attratti dal Sogno Americano, è altrettanto diffuso e radicato un sentimento anti-americano che al Qaeda e altri hanno abilmente sfruttato.

Le guerre in Iraq e Afghanistan insegnano che poi la forza militare americana è meno determinante di quanto l’ex segretario alla difesa Donald Rumsfeld e altri immaginassero. Le truppe, gli aeroplani e i missili americani in poche settimane possono rovesciare un governo dall’altra parte del mondo, ma pacificare e stabilizzare un paese dopo averlo conquistato è un altro paio di maniche. Non solo gli americani stanno perdendo il gusto per le avventure oltrefrontiera, ma è evidente che il loro budget militare subirà le pressioni della nuova era di austerità. L’America sta finanziando la propria supremazia militare con la spesa in deficit, vale a dire che la guerra in Afghanistan in realtà viene pagata con una carta di credito cinese. Non c’è da meravigliarsi se l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori congiunti delle forze armate, ravvisa nel crescente debito nazionale la più grossa minaccia alla sicurezza nazionale. Nel frattempo le spese militari cinesi continuano a crescere velocemente.

LA GLOBALIZZAZIONE STA

AVVICINANDO IL MONDO ALL’OCCIDENTE

Non proprio. Una delle ragioni per cui gli Stati Uniti non si preoccupavano troppo dell’ascesa della Cina alla fine della Guerra Fredda era la convinzione, profondamente radicata, che la globalizzazione diffondesse i valori occidentali. Alcuni pensavano addirittura che globalizzazione e americanizzazione fossero virtualmente sinonimi. Sia George W. Bush sia Bill Clinton similmente ritenevano che la globalizzazione e il libero mercato sarebbero serviti a esportare i valori americani. Questa teoria si basava su due grossi equivoci. Il primo era che la crescita economica comportasse inevitabilmente, e abbastanza velocemente, la democratizzazione. Il secondo era che le nuove democrazie sarebbero certamente state meglio disposte e più collaborative nei confronti degli Stati Uniti.

Nel 1989, dopo il massacro di piazza Tiananmen, pochi analisti occidentali avrebbero creduto che 20 anni dopo la Cina sarebbe stata ancora uno Stato a partito unico, e che la sua economia avrebbe continuato a crescere a tassi fenomenali. Il diffuso (e confortante) presupposto occidentale era che la Cina avrebbe dovuto scegliere tra la liberalizzazione politica e il fallimento economico. Come avrebbe potuto una nazione strettamente controllata da un partito unico aver successo nell’epoca dei telefoni cellulari e del World Wide Web?

Alla prova dei fatti, nel decennio seguente la Cina è riuscita a coniugare la censura e la regola del partito unico con un continuo successo economico. Il braccio di ferro tra il governo cinese e Google avvenuto nel 2010 è istruttivo. Google, icona dell’era digitale, minacciava di abbandonare la Cina per protestare contro la censura, ma alla fine ha fatto marcia indietro in cambio di concessioni simboliche. Oggi è del tutto concepibile che quando la Cina diverrà la maggiore economia mondiale – poniamo nel 2027 – sarà ancora uno Stato retto dal partito unico comunista.

Ma anche se si democratizzasse non è affatto detto che ciò renderebbe le cose più facili per gli Stati Uniti, né tantomeno che contribuirebbe a prolungare l’egemonia mondiale americana. L’idea che le democrazie tendano ad assumere una posizione comune sui grandi temi mondiali oggi viene regolarmente messa in discussione. L’India ha contestato gli Stati Uniti nei negoziati sul cambiamento climatico e in quelli del Doha Round dell’Omc. Il Brasile si è mostrato in disaccordo su come affrontare le questioni del Venezuela e dell’Iran. L’attuale Turchia più democratica è anche una Turchia più islamica, che rifiuta di seguire la linea americana su Israele o sull’Iran. Analogamente, una Cina più democratica potrebbe essere anche una Cina più spinosa, a giudicare dalla popolarità dei libri e dei siti internet nazionalisti nel Regno di Mezzo.

la globalizzazione non è

un gioco a somma zero

Meglio non esserne troppo sicuri. Gli ultimi presidenti Usa, dal primo Bush a Obama, hanno esplicitamente plaudito all’ascesa della Cina. Proprio alla vigilia della prima visita in Cina, Obama riassunse questa posizione tradizionale con le parole, «il potere non dev’essere per forza un gioco a somma zero, e le nazioni non devono temere il reciproco successo... Noi guardiamo con favore agli sforzi cinesi di giocare un ruolo più forte sullo scenario mondiale». Ma, al di là dei discorsi ufficiali, è chiaro che i governanti americani iniziano ad avere dei dubbi, e giustamente. È un assioma dell’economia moderna che il commercio apporti un mutuo beneficio ai partner, che sia un gioco a somma positiva anziché a somma zero. Ma ciò presuppone che le regole del gioco non siano truccate. In un discorso tenuto prima del Forum economico mondiale del 2010, Larry Summers, allora il principale consigliere economico di Obama, sostenne apertamente che le normali regole del mutuo beneficio del commercio possono non valere quando uno dei partner adotta politiche mercantiliste o protezioniste. Chiaramente il governo statunitense pensa che la sottovalutazione della propria moneta da parte della Cina sia una forma di protezionismo che ha portato a squilibri mondiali e alla perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti. Economisti come Paul Krugman e C. Fred Bergsten hanno assunto una posizione simile, sostenendo la legittimità dei dazi doganali e di altre misure di ritorsione. Con buona pace del mondo a guadagno condiviso.

E quando si passa al quadro geopolitico generale, il mondo del futuro sembra ancora di più un gioco a somma zero, in barba alla fumosa retorica della globalizzazione che ha confortato l’ultima generazione di politici americani. Infatti gli Usa hanno agito come se i mutui interessi creati dalla globalizzazione avessero abrogato una delle più antiche regole della politica internazionale: la nozione che chi si affaccia al potere prima o poi si scontra con chi quel potere già lo deteneva. La rivalità tra una Cina in ascesa e un’America indebolita ormai si manifesta in molteplici contesti, dalle dispute territoriali in Asia ai diritti umani. Ma una guerra è improbabile, ma solo perché entrambe hanno armi nucleari, non perché la globalizzazione abbia magicamente risolto i contrasti.

(traduzione di Elisa Comito)