Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 9/1/2011, 9 gennaio 2011
UNA FAGLIA TRA MONDO ARABO E AFRICA NERA
Bianchi arabi e neri africani, Islam e cristianità. All’apparenza sembra un nuovo e promettente campo di battaglia per al-Qaeda e chiunque nel mondo voglia mestare. Forse la linea che divide il Nord dal Sud diventerà un altro fronte di guerra; forse, miracolosamente, sarà invece un confine di pace. Comunque andrà, il Sudan sta per diventare la faglia fra due continenti geopolitici: il mondo arabo e l’Africa nera.
Le opzioni evidenti sono due. Sopravviverà in qualche modo un paese a conduzione araba di dimensioni gigantesche. Incapace per mezzo secolo di costruire una società multirazziale decentemente partecipativa e moderatamente non povera, difficilmente ci riuscirebbe ora. Oppure a un grande Sudan se ne sostituiranno due più piccoli. Il nuovo, quello del sud, sarà libero ma non avrà un futuro migliore di molti paesi sub-sahariani ai quali si unirà: indipendenti ma illiberali, etnicamente in conflitto, poveri. L’eventuale sfruttamento di materie prime non farà del nuovo Sudan un paese ricco ma solo più corrotto, più dipendente dagli interessi di una multinazionale, di un padrino europeo o cinese.
Dalla disgregazione dell’impero multietnico asburgico alla spartizione fra India e Pakistan del 1947, una secessione è sempre il fallimento di un’idea politica. Anche quella sudanese lo è, per quanto i sudisti abbiano il diritto di richiederla: il paese poteva essere il punto d’incontro fra due continenti, invece sarà un punto di rottura. E i due universi che afferma, sono politicamente e socialmente fallimentari. Pochi paesi afro-mediorientali sono stati capaci di uscire dalle loro eredità coloniali: al contrario, ancora dopo mezzo secolo, preferiscono restare abbracciati a quel passato perché serva da pretesto del loro fallimento presente. Il furto continuato e brutale di terre palestinesi dell’occupante israeliano non giustifica la mediocrità istituzionale della nazione araba.
A sud c’è la Costa d’Avorio con un presidente eletto che, sotto tutela Onu, aspetta in una camera d’albergo che quello sconfitto lasci il potere. È solo l’ultimo caso in un continente che resta l’unica area dove i tassi di povertà aumentano.
Seguendo lo stesso filo temporale della cronaca, a nord c’è l’Algeria della cui immensa ricchezza energetica non ci sono segni di benessere visibili. Gli eventi politici più rilevanti del mondo arabo nel 2010, prima delle bombe contro i copti, sono stati una scandalosa elezione parlamentare in Egitto e una revisione costituzionale dello Yemen che permette al presidente di restare a vita al suo posto. La bella regina che usa Twitter e Facebook non riesce a dissimulare la dimensione autoritaria del regno giordano, per quanto Rania e Abdullah godano in occidente di ottima stampa. Le elezioni di novembre hanno confermato che anche ad Amman la monarchia costituzionale resta un’idea lontana.
La monarchia praticamente assoluta resta tuttavia il sistema di governo più efficace e stabile del mondo arabo. Il più capace di sostenere la crisi perenne di legittimità del potere in questa regione. Tolto l’Egitto che ha un governo stabilmente centrale da 7mila anni, tutti gli altri covano spinte disgregatrici. Incapaci di inclusività, sono guidati da una setta religiosa, un gruppo etnico, una famiglia, una tribù. Anche la casa regnante saudita, ricca ed essenziale per la stabilità della regione, non ha ancora superato i limiti di legittimità, 90 anni dopo la fondazione. In Libano un re non c’è. Esiste solo un’idea di stato, sia pure con confini, bandiera e inno nazionale. Una milizia come Hezbollah ben armata, socialmente e religiosamente motivata, vi si sostituisce senza troppa fatica. Il referendum di oggi non è che il figlio di questo doppio fallimento al nord e al sud del Sudan: quello che gli elettori andranno a sancire è l’ultimo grande inganno intercontinentale.