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 2011  gennaio 11 Martedì calendario

Ma il business made in Italy è ottimista: rischio moderato - Dove c’è lavoro e impresa la situazione è tranquilla

Ma il business made in Italy è ottimista: rischio moderato - Dove c’è lavoro e impresa la situazione è tranquilla. Dove manca, nel Sud-Ovest verso il confine con l’Algeria in cui monta la disoccupazione scolarizzata, è partito il cortocircuito». Isnardo Carta, vicentino di Montecchio, parla al telefono dalla Tunisia. Ad Efidha, 80 chilometri sotto Tunisi, la sua azienda sta costruendo un grande parco industriale. Lungo la costa, cartolina della Tunisia modernizzata dalla «democratura» del presidente Ben Alì (grazie ai capitali esteri), svetta il nuovo aeroporto e l’anno prossimo verrà pronto il porto acque profonde più grande del Paese. Tuttavia se il business fila senza intoppi, la situazione nell’altra Tunisia lo preoccupa. «Quando ci sono i morti è sempre un fatto grave - ammette Carta -. Spero non ci sia dietro qualche potenza regionale (leggi l’Algeria) a sobillare il malcontento giovanile. I disordini sono sempre nemici degli investimenti». In principio furono i tessili. Capofila i Benetton (oggi a Efidha è sbarcato Dainese, fa le tute per Valentino Rossi) che all’inizio dei Novanta scesero in Tunisia a cucire le idee progettate a Ponzano Veneto. Poi è la volta di costruttori, energetici e banche (Todini, Colacem, Fonderie Gervasoni, Eni, Snam, Terna, Ansaldo). Infine delle pmi del segmento meccanico-elettronico, attratte da un sistema paese conveniente piattaforma commerciale per i Paesi dell’accordo di Agadir (Egitto, Tunisia, Marocco e Giordania). Un Bengodi che rischia di interrompersi, se la protesta dovesse dilagare. Ottaviano Mattavelli da Gorgonzola, con la sua «Energie del Sole» costruisce pannelli solari per la produzione di acqua calda a Sousse, sulla costa, dove due anni fa ha realizzato uno stabilimento da 50 operai. «I disordini? Tenderei a smorzarne la gravità», spiega l’imprenditore lombardo. «Non vedo rischi per gli investimenti delle oltre 700 imprese italiane presenti in Tunisia», che danno lavoro a 55 mila addetti investendo oltre 200 milioni l’anno. «I focolai sono circoscritti nelle province interne», ridimensiona Mattavelli. Nel frattempo, raccontano dall’ambasciata d’Italia, i primi segnali timidi della protesta stanno lambendo la capitale. Nessuna fuga, ma la tensione cresce. Giuseppe Colaiacovo è vicepresidente del gruppo Colacem, presente da 10 anni con il più grosso investimento italiano in loco: 150 milioni di cementificio costruito a Tunisi, per servire il mercato locale. Oggi Colacem dà lavoro a 160 addetti diretti e la divisione africana è parte importante negli utili del gruppo. «C’è preoccupazione, inutile negarlo - ammette Colaiacovo - anche se da Tunisi mi arrivano segnali rassicuranti. Ma certo si avverte lo scarto tra un Paese molto cresciuto grazie a un’economia ben gestita e il disagio di una democrazia che chiede di integrare la nuova classe dirigente». «Vedo tornare il sereno», getta il cuore oltre l’ostacolo Ferruccio Bellicini, segretario generale della Camera di commercio italo-tunisina. «Nel suo discorso il presidente Ben Alì è stato chiaro, promettendo posti di lavoro in quelle province finora escluse dai benefici dell’industrializzazione». Abbozzando le prime contromosse. Ad esempio Utica, la Confindustria locale, ha appena annunciato che verranno assunti 50 mila giovani scolarizzati con un programma di riduzione del 4% del tasso di disoccupazione giovanile (oggi intorno al 30%). Mentre si studia l’estensione di quelle franchigie fiscali che hanno trasformato il Nord e la costa della Tunisia in un’area attrattiva pergli investimenti. Una mossa che dovrebbe incentivare ulteriormente la localizzazione di imprese straniere. Già, ma basterà? Appena sopra Tunisi, a Biserta, la Clerprem di Carrè produce i poggiabraccia in pelle per l’Audi. «Dopo le ferie abbiamo ripreso regolarmente le attività produttive», conferma l’amministratore delegato Gianroberto Marchesi. «Tuttavia temiamo ritardi nelle esportazioni, blocchi dei porti e nell’attività logistica». Insomma extracosti legati all’instabilità politica che potrebbero alla lunga rendere meno conveniente l’approdo del made in Italy sulla Quarta sponda. La nostra piccola Cina.