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 2011  gennaio 11 Martedì calendario

Haiti, nel Paese azzerato che non sa rinascere - Johnny ha 39 anni. La pelle raggrinzita, i capelli rasta incanutiti, le mani mangiate dalla polvere dicono che quel viso e quel corpo di anni ne potrebbero avere quasi il doppio

Haiti, nel Paese azzerato che non sa rinascere - Johnny ha 39 anni. La pelle raggrinzita, i capelli rasta incanutiti, le mani mangiate dalla polvere dicono che quel viso e quel corpo di anni ne potrebbero avere quasi il doppio. La sua casa è la strada. ome tanti, quasi tutti ad Haiti. È così dal terremoto che ha squarciato il Paese caraibico alle 16 e 53 dello scorso 12 gennaio, 222 mila morti forse più, 1,2 milioni di senzatetto, centinaia di migliaia di feriti, quasi 10 mila persone amputate. Una botta di 20 secondi di 7 gradi della scala Richter. Un Paese azzerato. E via alla mobilitazione internazionale, gli aiuti per l’emergenza umanitaria, 1,5 miliardi di dollari e poi quelli stanziati per la ricostruzione in maggio, 2,1 miliardi di dollari, tre quarti arrivati e usati, gli altri ancora sotto forma di cambiali. Distesa di macerie La parola ricostruzione eppure suona maldestra, sembra quasi una beffa. Maurizio Giuliano, portavoce dell’Onu a Port-Au-Prince preferisce parlare di «costruzione», perché prima non c’era nulla. «Il sisma è - dice -, purtroppo, una tragica opportunità». Afferrarla, quella opportunità, è più difficile. Le strade sono libere dalle macerie, ma di cantieri non si vede granché. Si vedono invece baraccopoli, tendopoli, ancora un milione di persone vive fra le tende donate dalla comunità internazionale. Ci sono gli slum, le bidonville che popolavano Port-Au-Prince prima del terremoto e che oggi sono ancora lì. Forse anche peggio. L’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà, appena il due fa parte dei ricchi. Con il vestito buono alla messa Un anno dopo il Palazzo presidenziale è ancora a pezzi. Sembra di vederlo ancora René Préval, il presidente uscente, vagare per le rovine dell’edificio sotto choc nelle ore successive al disastro. Potrebbe oggi rigirare la stessa scena. Le due «cupole» afflosciate, la facciata accartocciata. Come un anno fa. Il sisma si portò via il 60 per cento dei palazzi governativi e travolse la cattedrale e con essa la vita del vescovo Miot. La sventrò, e oggi lì dinanzi sotto un cartello che promette la ricostruzione, ci sono tendopoli e una chiesa provvisoria. La gente alla Messa è elegante, camicia e cravatta anche per i bambini, ragazze ben vestite e pettinate e truccate. Anche le unghie dei piedi. Dal Signore ci si presenta così. La scena si ripete uguale ovunque, nelle bidonville e nei quartieri, come Petionville, più ricchi. Così nelle strade polverose e fra i mercati sudici si aggirano ragazze in ghingheri. Come se la polvere se ne infischiasse di loro, come se quella mitezza e quella fierezza di cui è colma gli haitiani aiutasse tutti a sopportare le frustate della storia. Che qui sono schioccanti e severe. L’infinita riconta dei voti La gente sorride, la vita a tempo di rap aiuta. Philippe, 21 anni, ci avvicina vicino alla cattedrale. Racconta la sua storia. «Sono il papà e la mamma di questo bambino». Chi ha messo al mondo questo bimbo con la bocca sporca di latte e polvere se ne è andata alle 16 e 53 del 12 gennaio. E Philippe nella sua tenda vuota, due coperte, qualche cencio e un caldo soffocante, fa tutto da solo. Johnny intanto va avanti indietro lungo la via e cita Machiavelli. «Préval? Era un pragmatico, come il Principe di Machiavelli», ci dice mentre spiega che la gente attende con impazienza che i risultati delle elezioni siano rese ufficiali. Il ballottaggio si sarebbe dovuto tenere domenica prossima. Troppi rischi e contestazioni, così la Commissione elettorale ha deciso di ricontare e aspettare tempi migliori per comunicare chi andrà al ballottaggio: Jude Celestin, protetto di Préval, arrivato secondo dopo l’ex first lady Mirlande Manigat. Oppure il terzo incomodo il cantante Michel Martelly, popolarissimo ma in ritardo, anche se di appena 7 mila voti. Meglio ricontare. E lasciare che domani, anniversario del terremoto sia la giornata del lutto, del dolore e della memoria. Messe, celebrazioni, segnali di lutto, scuole chiuse. Le sette piaghe bibliche La macchina degli aiuti umanitari intanto marcia a pieni giri. Anche perché l’Haiti di un anno dopo sembra, raccontano molti, l’Haiti di due anni prima. Non che l’effetto del sisma non si veda, almeno in quello che si può misurare con la cruda legge dei numeri. Sono gli haitiani stessi a voler scacciare il ricordo. Non c’è stato il terremoto, c’è stato il «12 gennaio» dicono, insieme spartiacque della storia e simbolo di morte. Ma anche di opportunità. Per ripartire. Perché il 13 gennaio di un anno fa gli haitiani, miti e fieri, erano con palette, badili e a mani nude chinati sulla terra a scavare fra le macerie e oggi la vita continua ad andare avanti, con lo stesso ritmo di prima che la Terra danzasse furiosa sul ventre dei Caraibi. La maledizione di Haiti. La storia qui non procede in linea retta, è piuttosto un cerchio, un eterno ritorno fra una sfortuna e l’altra: i cicloni che quando vagano sui Caraibi non mancano di scaricare acqua e morte sulle baracche di questo Paese, o l’instabilità politica o la mano del despota di turno che per oltre 30 anni è stato un Doc, Papa o Baby, dinastia dei Duvalier, o il visionario Aristide. E ora il colera, oltre 3 mila morti, mentre i contagiati, stime Onu sono oltre 150 mila. La danza dell’uragano I bambini dell’orfanotrofio della Ong Nph- Fondazione Rava, Kay St. Helene, gemma di luce incastonata sulle montagne che attorniano la capitale Port-Au-Prince, la storia del loro Paese la portano dentro. Con la danza parlano di uragani e di morte, di terremoti e di dolore. Ma sanno che la speranza sono loro, i giovani. E non potrebbe essere altrimenti in un Paese dove l’età media è di 16 anni e tutto è da rifare. Anzi, da fare.