Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  gennaio 09 Domenica calendario

I brutti e cattivi del punk in passerella - Al loro primo concerto salirono sul palco con pantaloni schiz­zati di vernice, top da donna di pelle rosa, magliette strappate con la scritta «I Hate»

I brutti e cattivi del punk in passerella - Al loro primo concerto salirono sul palco con pantaloni schiz­zati di vernice, top da donna di pelle rosa, magliette strappate con la scritta «I Hate». La musica era un optio­nal, due accordi sgangherati che suonavano con aria annoiata: John Lydon succhiava caramel­le e poi le sputava. Malcolm McLaren li dirigeva, dicendo lo­ro persino dove piazzarsi. Un’istantanea dei Sex Pistols, un fotogramma del magma punk come emerge da Il grande sogno inglese di Jon Savage ( Arca­na, pagg. 1041, euro 39,50, tradu­zione di Alberto Campo e Paolo Bassotti), ristampato e arricchi­to con 58 interviste ai protagoni­sti dell’epoca. Racconti fuori dai denti e inediti di star come Sioux­sie Sioux, Johnny Rotten,e di per­sonaggi di culto come l’ex vendi­trice di abiti usati e poi autrice e voce degli X Ray Spex Poly Styre­ne, come la segretaria di McLa­ren Sophie Richmond, politiciz­zata e rigorosa, come Berlin, membro dei Bromley Contin­gent e teenager alla moda quan­to «scandaloso». Il punk: rivoluzione o truffa? Un po’ entrambe le cose, già dal nome. Quando John Holm­strom, studente di arte visuale, fondò una rivista alternativa dis­se: «La chiameremo Punk. Nei polizieschi di Kojak e Baretta quando beccano l’assassino gli dicono sempre: “tu, lurido punk”. Noi emarginati avviam­mo un movimento. Siamo la gen­te scivolata attraverso le crepe del sistema educativo». Infatti il punk si nutre di tutto e del contra­rio di tutto. È moda stracciona che nasce dal genio casareccio di una stilista tuttora à la page co­me Vivienne Westwood; è un in­citamento al pulp (Sid Vicious marcio di droga che uccide la sua ragazza e si suicida) con i contorni di un grottesco fumet­to; è un Don Chisciotte che si pro­­ietta nel futuro sostenendosi col passato. La vera novità del punk fu quella di valorizzare cose che la gente normale - ma anche gli ex hippie- odiavano, come i film scadenti, la plastica, il cibo dozzi­nale. Persino le idee e la musica erano da serie B, senza possibili­tà di promozione. Diciamo pure che McLaren, eminenza grigia dei Pistols, si ispirò all’«Interna­zionale Situazionista» (guidata da Guy Debord, che con un mi­sto di avanguardia, teorie marxi­ste ed esistenzialismo sognava di liberare la cultura dalla merci­ficazione) per un «aggiornamen­to filosofico del pop». Il negozio londinese al 430 di King’s Road in cui trafficavano McLaren e la Westwood fu una fucinadi esperimenti. Non c’era nulla da inventare, bastava guar­darsi attorno. Copiare gli «edoar­diani » (ovvero i precursori dei teddy boys) che, imitando il ma­­lavitoso Colin Donellan, univa­no l’abito da gangster america­no e quello delle sartorie di Savi­le Row. Maniaci dell’abbiglia­mento, eran pronti a tutto per un abito grigio con le maniche lun­ghe fino a coprire le dita o i panta­loni con risvolti da trenta centi­metri. «Mai dimenticare che in Inghilterra sono i vestiti che fan­no venire il batticuore!», disse McLaren. E la coppia - svuotan­do i mag­azzini delle vecchie fab­briche di abbigliamento di Leice­ster - prese a vestire, elaborando quello stile, i nuovi teddy boys. Poi tornarono di moda i rocker e allora via coi giubbotti borchiati, con quelli coi lustrini fosfore­scenti. E avanti verso il punk con magliette piene di tagli e cernie­re chiuse con in cima una picco­la palla da carcerato, o le scritte impresse sul tessuto con ossa di pollo bollito, o le magliette fatte con gomma di bicicletta. Para­dossalmente Vivienne creò uno stile grazie alla sua inesperienza; non riuscendo a confezionare una maglia con le maniche, cucì due pezzi di stoffa lasciando i bu­­chi per testa e braccia: fu un trion­fo personalizzarle con slogan e parolacce. Anche nella musica c’era tan­to da copiare; non solo dal primo r’n’r (ecco servito lo scontro di classe! più rabbioso ma meno au­­tentico), un suono semplice che i punk resero elementare, ma an­che dalla new wave americana dei New York Dolls e degli Electric Eels che in Ohio scatena­va­no violente risse nei locali baz­zicati dagli operai delle acciaie­rie e dicevano: «Già nel ’74 porta­vamo spille infilate nel corpo, t shirt strappate, svastiche». E l’universo punk, come ricorda Savage nel libro - implicava una quantità di contraddizioni pari al numero dei gruppi: «c’erano i fumettistici Ramones, l’aspetto da studentelli dei Talking Hea­ds, l’ardimento dei Suicide,l’an­sioso pop dei Blondie». Il punk ha fallito? Come stile di vita è ghettizzato, come suono- seppu­re, o forse per questo, tecnica­mente più povero di tutti - non smette di riflettere la sua sferzan­te eco. Come sempre, è l’avven­tura di un gruppo di sognatori e balordi che s’incontrano «per trasformare, se non il mondo, al­meno il proprio mondo ». E le lo­ro storie, come dice la Prima leg­ge del Pop di Andrew Loog Ol­dham, «a forza di menzogne di­ventano realtà».