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 2011  gennaio 09 Domenica calendario

Chi decide quando la crisi è finita davvero - Non c’è l’arbitro con i tre fischi finali o la bandiera a scacchi e non ci saranno neanche i fuochi d’arti­ficio in piazza o le luci alzate all’improvviso e sparate insieme a musi­che banali che segna­no la conclusione di un concerto rock

Chi decide quando la crisi è finita davvero - Non c’è l’arbitro con i tre fischi finali o la bandiera a scacchi e non ci saranno neanche i fuochi d’arti­ficio in piazza o le luci alzate all’improvviso e sparate insieme a musi­che banali che segna­no la conclusione di un concerto rock. Non aspettatevi segnali così chiari, ma qualcosa che certifichi la fine di una (di questa) crisi economica ci deve pur essere. La crisi non può diventare una versione per economisti o per politici dei racconti di Sherazade. E neanche la protagonista delle moderne fa­vole per bambini: buoni, se no chiamo la crisi! Ma quando finisce una (questa) crisi? Gli odiati economisti hanno un loro metodo di valutazione e, in sostanza, dicono che le crisi fini­scono quando le cose smettono di peggiorare. Non c’è bisogno che tutto torni come era pri­ma, basta che si interrom­pa il cammino verso il bas­so e che cominci la risali­ta. Vi sembra un criterio troppo ottimistico? Biso­gna c­omunque riconosce­re che lo stesso criterio vie­ne applicato, a rovescio, per decretare l’inizio di una fase tribolata, e quin­di la comunità degli eco­nomisti (in questo caso in versio­ne gufi) comincia a parlare di crisi quando le cose vanno ancora be­ne ma smettono di migliorare. È per questo che il barometro del­l’economia indicava crisi già nel 2007, quando i livelli di produzio­ne, posti di lavoro e consumi, era­no ancora alti, e ha invece sposta­to le sue lancette verso la ripresa già nel 2009, in condizioni ben peg­giori per tutti gli indici fondamen­tali. E proprio per non farsi prende­re per matti i tecnici dell’econo­mia hanno inventato un altro crite­rio di valutazione e hanno comin­ciato a parlare di «ritorno della pro­duzione ai livelli precedenti alla crisi», traguardo che già da più di un anno è stato fissato (pur nel ter­reno scivoloso delle previsioni) al 2012, mese più mese meno. Insom­ma, secondo i criteri normalmen­te disponibili la crisi è già finita e i suoi effetti andranno a esaurirsi completamente nel corso dell’an­no appena cominciato. E allora che ne è di tutti gli altri rischi, di tutte le altre minacce alla ripresa italiana e mondiale? Non sono stati certo cancellati, ma, po­tremmo dire, sono i nostri vecchi, cari, rischi e minacce (compren­d­endo tra questi le inevitabili insta­bilità e voracità dei mercati finan­ziari). Per l’Italia, poi, niente di nuovo: debito pubblico altissimo, mercato del lavoro inefficiente, bassi investimenti, burocrazia pa­ludosa, pressione micidiale della concorrenza internazionale che va a colpire proprio le nostre azien­de più dinamiche, quelle piccole e medie che gli spazi di mercato se li devono conquistare ogni giorno. Vogliamo chiamare crisi questo in­sieme di problemi storici? Chi vuo­le, ovviamente, può farlo, ma fa un danno alla chiarezza. Se tutto (nel discorso pubblico) è crisi niente è crisi.Se tutto è crisi l’Italia (e maga­ri anche il mondo) si trasforma in un Ballarò perenne. Serve a qual­cosa? Si direbbe di no in generale, certamente non serve a chi gover­na. La crisi (nel vero senso della pa­rola) va affrontata con metodi da pronto soccorso; per i mali storici dell’economia e della società ita­liane servirebbero cure illuminate e ovviamente non immediate (e servirebbe un po’ di visione sul fu­turo, cioè l’esatto contrario del comportamento di chi agisce cre­dendo che una crisi si supera re­staurando esattamente tutto co­m’era prima). Confondendo que­sti due piani di azione si fa solo molta confusione. Il Ballarò eter­no fa comodo solo a chi vi parteci­pa.