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 2011  gennaio 08 Sabato calendario

L’opera soffre di allergia al mercato - Quest’anno, se il Fondo unico per lo spettacolo non verrà riportato al­la soglia psicolo­gica di 400 milio­ni di euro (e ci sono buone pro­babilità che rimanga a 258, lo sapremo per certo a fine feb­braio), le fondazioni lirico sin­foniche- le maggiori beneficia­rie del Fus - si stracceranno le vesti, o almeno così hanno pro­messo di fare durante le ultime proteste di piazza e di podio

L’opera soffre di allergia al mercato - Quest’anno, se il Fondo unico per lo spettacolo non verrà riportato al­la soglia psicolo­gica di 400 milio­ni di euro (e ci sono buone pro­babilità che rimanga a 258, lo sapremo per certo a fine feb­braio), le fondazioni lirico sin­foniche- le maggiori beneficia­rie del Fus - si stracceranno le vesti, o almeno così hanno pro­messo di fare durante le ultime proteste di piazza e di podio. A marzo verrà pubblicata la consueta dettagliatissima rela­zione (quasi sempre sulle cin­quecento pagine) sull’utilizzo del Fus 2010, ma intanto sia­mo riusciti ad avere alcune ci­fre che gettano un po’ di luce sulla vexata quaestio delle Fon­dazioni: sono il fiore all’oc­chiello dello spettacolo del­­l’Italia? Vanno tenute in piedi pur se in perdita, in una sorta di glorioso e gratuito omaggio alla musica, pena il definitivo sfracello culturale del Belpae­se? Oppure devono anche lo­ro, come tutti, affrontare il mer­cato e il tempo presente? Su 409,7 milioni del Fus 2010 la lirica si è accaparrata il 47,5 per cento. Tra riduzioni per il provvedimento d’urgenza 78/2010 e accantonamenti, la cifra si assesta a 190 milioni di euro. Il dato è costante: dal 2002 al 2007 la media è stata 47,8 per cento, nel 2008 la per­centuale era sul 47,2 per cento e nel 2009 sul 49,8. Mezzo Fus, insomma, per 14 fondazioni, dalla Scala di Milano (che l’an­no scorso ha preso 26,7 milio­ni) a San Carlo di Napoli (13,5 milioni), dal Comunale di Bo­logna (12) al Verdi di Trieste (11), dal Lirico di Cagliari (7,9) al Maggio Musicale Fiorentino (15,7). I dipendenti del setto­re, a tempo indeterminato co­me da piante organiche appro­vate, vanno dagli 808 della Sca­la ai 171 del Petruzzelli di Bari (ultima delle 14 fondazioni, creata nel 2003), e in totale fan­no non meno di 5500 stipendi da pagare ogni fine mese. Si tratta di un fabbisogno finan­ziario (340 milioni di euro nel 2009) non accostabile a quello degli altri segmenti sovvenzio­nati dal Fus e dotato di rilevan­za anche politica: metterlo in discussione significa mandare a casa una fetta di dipendenti, o almeno ricontrattualizzare la loro posizione (o «rendita di posizione», per qualcuno). Quando a ogni febbraio il mini­stro in carica per i Beni cultura­li «spacchetta» il Fus, deciden­done le collocazioni, non può non tenerne conto. Per non parlare dei lavoratori a tempo determinato: la Scala da sola ne ha 140. Azzardiamo un’ipo­tesi: se il Fus 2011 rimarrà a 258 milioni, il ministro Bondi potrebbe essere costretto a dar­ne comunque 190 alle fonda­zioni, penalizzando cinema, musica, teatri di prosa, danza e circo, giusto per soddisfare i dipendenti fissi della lirica. Il loro contratto nazionale di lavoro, di fatto, è fermo dal 2003, ma la struttura della loro busta paga è piuttosto interes­sante: una buona fetta viene contrattata a livello «locale». In sostanza, oltre lo stipendio fisso, c’è un’indennità di pro­duttività che dovrebbe remu­nerare quello che i lavoratori si impegnano a fare di più o in modo diverso, assicurando al­la fondazione una maggiore «attitudine» a produrre spetta­coli di ogni tipo (per esempio anche, ma non solo, quelli che servono a fare cassa). Di que­sto strumento c’è stata un’ado­zione a dir poco patologica. Non sempre queste erogazio­ni di denaro hanno garantito maggior produttività e in certi casi il contratto arrivava fino al 40 per cento della busta paga di base, facendo lievitare il co­sto del lavoro. Quando nel 1996 gli enti liri­co sinfonici pubblici furono trasformati - da Walter Veltro­ni - in Fondazioni, nella spe­ranza di attirare capitali priva­ti (cosa che solo i maggiori di essi, come la Scala o l’Accade­mia di Santa Cecilia, sono stati capaci di fare), non si fu in gra­do o non si volle prevedere che questo avrebbe portato a una maggiore libertà nella gestio­ne del personale, con i risultati disastrosi che vediamo ades­so. La riforma del 2010 ha cer­cato di spezzare la logica surre­ale dei contratti integrativi, ma il loro taglio netto (previsto nella prima stesura) è stato smussato e modificato fino a perdere efficacia. E così dalla fine dell’anno scorso l’Aran (l’Agenzia per la rappresentan­za negoziale per le pubbliche amministrazioni) insieme a una delegazione dei sovrinten­denti degli enti lirici sta con­trattando una razionalizzazio­ne del Contratto nazionale di lavoro dei dipendenti: ma sia­mo ancora alle schermaglie ini­ziali. È chiaro che ad essa si pre­feriscano scioperi e richieste di aumento del Fus, perché è più facile sventolare la morte della cultura che piazzarsi sul libero mercato aumentando, per esempio, il numero di reci­tativi per anno (la Scala ne ha più di 105, contro una media nazionale di 63 nel 2009, ma ri­cordiamo che a Londra il Co­vent Garden è aperto tutte le sere) o virando verso program­mazioni più accorte, capaci di generare un massiccio sbigliet­tamento. Oggi, questo accade in due casi soltanto: la Scala (che complessivamente nel 2009 ha ricevuto dallo Stato 33,3 milioni di euro e ne ha rica­vati 49 da vendite e prestazio­ni) e l’Arena di Verona (ricevu­ti 16,6, ricavati 23,5). Ma il qua­dro completo del settore, pur­troppo, è che le 14 fondazioni hanno ricevuto nello stesso an­no un totale (tra Fus e altri con­tributi) di 240,3 milioni di euro e hanno generato solo 127,7 milioni di ricavi. Eppure qualche esempio in positivo, o segnale di cambia­mento che dir si voglia, lo si può scorgere: è da poco che il Carlo Felice di Genova- che da una quindicina di anni era gra­vato da un fondo pensioni inte­grativo costosissimo - ha otte­nuto la cassa integrazione in deroga, primo ente lirico in as­soluto a ottenere simile prov­vedimento. Il Massimo di Pa­lermo, che sino al 2004 ha avu­to risultati di esercizio negati­vi, si è rimesso in pari negli ulti­mi anni, realizzando nel 2009 addirittura un utile di 1,9 milio­ni di euro e con un’ottima atti­vità artistica, a detta dei critici. La crisi, insomma, sta inne­stando un circolo virtuoso che ha richiamato all’ordine alcu­ni amministratori. Ma non al­tri: per le loro Fondazioni, in­fatti, la crisi è strutturale e non momentanea. Sono loro i più spaventati dalla riduzione del Fus.