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 2011  gennaio 08 Sabato calendario

Prima regola: via sangue e pallottole Così i militari censurano i conflitti - La foto della salma avvolta nel telo mi­metico dell’alpino che non va pubblicata, il tentativo di censurare il racconto del me­dico di prima linea che parla troppo di sangue, la dura battaglia dei ponti a Nassi­rya, derubricata ad azione di polizia, op­pure il divieto di salire sugli aerei militari diretti in teatri difficili

Prima regola: via sangue e pallottole Così i militari censurano i conflitti - La foto della salma avvolta nel telo mi­metico dell’alpino che non va pubblicata, il tentativo di censurare il racconto del me­dico di prima linea che parla troppo di sangue, la dura battaglia dei ponti a Nassi­rya, derubricata ad azione di polizia, op­pure il divieto di salire sugli aerei militari diretti in teatri difficili. Questi sono solo al­cuni esempi, vissuti in prima persona, di come nelle missioni più ardue all’estero, costretti da ordini politici, o temendo la propria ombra, i militari hanno indorato la pillola o limitato il lavoro dei giornalisti di guerra. Il Sitrep, ovvero la comunicazione im­mediata dai teatri operativi, sulla morte dell’alpino Matteo Miotto, il giorno di Ca­podanno, parlava, fin dalle prime ore di attacco degli insorti, colpo mortale di un cecchino e richiesta di appoggio aereo, che ha fatto fuori un po’ di talebani. Il Si­trep arriva anche al gabinetto del mini­stro della Difesa, ma la versione scelta nel primo comunicato ufficiale, spedito alla stampa, ometteva lo scontro e tutto il re­sto parlando solo di un tiro isolato, che ap­pariva quasi fortuito e casuale. Il ministro Ignazio La Russa si è incavolato sostenen­do di aver saputo solo dopo della batta­glia. Dal 1982 ho vissuto quasi tutte le missio­n­i all’estero dei militari italiani, dallo sbar­co a Beirut fino a oggi. Nel campo della comunicazione c’è stata una rivoluzione copernicana, ma parecchio va ancora fat­to. Per un servizio televisivo che sto realiz­zando, autorizzato dal ministro in perso­na, mi hanno dato video e foto dei militari italiani feriti, ma non quelle dove si vede il sangue. Come se un soldato colpito non ne perdesse una goccia. Il periodo più ne­ro è stato quello del governo Prodi, dove la guerra in Afghanistan semplicemente non esisteva o i militari portavano solo ca­ramelle ai bambini. A ridosso delle elezio­ni in Italia del 2008, per raggiungere la ba­se di Surobi, ho dovuto farmela a piedi per chilometri e presentarmi all’ingresso, perché all’ultimo minuto da Roma voleva­no impedirmelo. In quell’occasione un te­nente medico e un sergente infermiere mi raccontarono davanti a una telecame­ra c­ome avevano salvato alcuni soldati af­ghani, che perdevano sangue da tutte le parti. Un generale degli alpini a Kabul fe­ce di tutto per eliminare i riferimenti al sangue e le parti più cruente della batta­glia. Anche l’ex ministro della Difesa, Anto­nio Martino, non scherzava, soprattutto sull’Irak. Quando i soldati italiani sparava­no centomila colpi, durante le battaglie dei ponti a Nassiryah, in combattimenti sanguinosi con i miliziani sciiti, che han­no perso oltre 100 uomini, a Porta a Porta un altro ministro le bollava come «opera­zione di polizia». E in Afghanistan, pur con timide aperture, la Difesa interveniva per non far pubblicare la foto di un alpino, morto in un incidente, ma durante una missione per garantire le prime elezioni presidenziali. Nonostante il corpo fosse su una barella portata a braccia dai suoi commilitoni e completamente avvolto da un telo mimetico. Poi, il governo Prodi cancellò la possibi­lità per i giornalisti di raggiungere i teatri operativi a bordo dei voli militari, renden­do il loro viaggio più arduo e rischioso. La Russa ha obiettivamente «sdogana­to » tanti X file, come i corpi speciali della Task force 45 e la stessa missione in Afgha­nistan. Il corto circuito fra militari e politi­ci, però, è sempre in agguato, perché biso­gna ancora superare definitivamente il guado legato all’ambiguità delle missioni di pace, dove si è costretti, sempre più spesso, a fare la guerra. L’unica soluzione è permettere ai giornalisti, che conosco­no veramente la vita di prima linea, di se­guire le nostre truppe anche sotto il fuo­co. Per raccontare senza filtri le storie di valore, come la morte del caporal maggio­re Miotto. Lo dobbiamo ai circa diecimila soldati impegnati in missioni all’estero e all’opinione pubblica, sia pro che contro le «guerre» di pace degli italiani.