Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 10/01/2011, 10 gennaio 2011
LE AMBIGUITÀ DI LULA IL CAPITALISTA «ROSSO»
Una politica estera poco raffinata, ma molto coerente spiega l’atteggiamento del Brasile nel caso Battisti. Lo straordinario progresso economico e le dimensioni geografiche e demografiche spingono il Brasile alla ricerca di una egemonia regionale che sostituisca quella finora tradizionale degli Usa, originata dalla dottrina Monroe e mantenuta a lungo attraverso la preponderanza economica. Lula è stato un presidente poco impegnato ideologicamente, ma molto sensibile agli umori popolari, non solo a quelli del proletariato brasiliano. Il diffuso antiamericanismo dell’America Latina è spesso al limite del folklore, ma non per questo meno utile alle politiche domestiche dei governanti locali. I fenomeni Castro, Chávez, Kirchner, Morales sono alimentati da sentimenti anti Usa che hanno radici popolari. Il finto sinistrismo che regge la negazione della estradizione di Battisti ha una funzione utilitaristica. Corteggia vaghi sentimenti di sovranità nazionale e si propone di ricostruire una verginità di sinistra dopo 8 anni di governo Lula, più impegnati in campo socio-economico che ideologico. Comunque dall’informazione mediatica brasiliana di questi giorni appare evidente che non ci si aspettava una reazione del pubblico italiano di questa intensità. Inoltre qui sfuggono totalmente le motivazioni spesso politiche e di parte della maggioranza di coloro che protestano in Italia.
Piero Bondi
Rio de Janeiro (Brasile)
Caro Bondi, un lettore, qualche giorno fa, ha scritto che in Brasile il governo Lula si è imposto con la forza. È un errore. Lula ha vinto con elezioni democratiche e ha governato per due mandati con l’evidente consenso di una larga parte del Paese. Se la costituzione brasiliana lo avesse consentito, sarebbe ancora, probabilmente, al vertice dello Stato. Ma proviene da una sinistra «combattente» , duramente repressa dal regime autoritario dei militari e non ha mai voluto rompere i legami di simpatia e solidarietà che hanno legato il suo movimento per molti anni alle forze più o meno radicali della sinistra latino-americana. Lei ha ragione, in particolare, quando osserva che questi legami hanno permesso a Lula di accreditarsi agli occhi del subcontinente come il paladino della sua emancipazione dalla tutela del grande vicino settentrionale. Ma il presidente brasiliano ha avuto anche il merito di capire che l’obiettivo politico— il ruolo del Brasile come potenza egemone della regione— sarebbe stato tanto più facilmente raggiungibile quanto più il suo Paese avesse dato prova di grande dinamismo economico. Occorreva rompere il circolo vizioso di un continente in cui le risorse naturali hanno prodotto straordinarie fortune, ma il denaro accumulato dai ceti più ricchi è stato investito prevalentemente a nord del Rio Grande. È inutile essere contro l’ «imperialismo» degli Stati Uniti se il proprio denaro contribuisce a consolidarlo. Da questa doppia esigenza — essere «uomo di sinistra» e fare del Brasile un grande protagonista della globalizzazione— discende l’apparente ambiguità di un presidente che accoglie cordialmente George W. Bush nella primavera del 2007, ma non rinuncia a coltivare i suoi cordiali rapporti con i Castro a Cuba e con Hugo Chávez in Venezuela, che vuole piacere contemporaneamente alla Casa Bianca e ai suoi nemici. Il no all’estradizione di Battisti è la «prova d’amore» che Lula ha dato ai suoi vecchi compagni. Ora, dopo la sua partenza, la nuova amministrazione è forse libera, se lo vuole, di cambiare idea.
Sergio Romano