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 2011  gennaio 08 Sabato calendario

I MICROSOGNI DEL MADAGASCAR

Di questo passo diventerà un uomo ricco. «Sì, sto proprio per diventarlo» risponde Jean de Dieu Rakotoarimalala con sincera convinzione. Sulla maglietta che indossa c’è uno stemma. «A.C. Milan 1899», un segno dell’ineluttabilità della globalizzazione della quale Jean de Dieu non aveva avuto altre tracce prima che incominciasse a fare miele «con le nuove tecniche». Da quando lo fa, il suo profitto è salito a 250 dollari l’anno: quasi il Pil procapite del Madagascar, il 146° dei 177 paesi inclusi nell’indice dello sviluppo umano dell’Onu.

Il miele è il miele e alla fine si fa sempre con le api, le arnie, gli eucalipti e i fiori selvatici. A Soarano, villaggio di contadini a est di Antananarivo, anche il padre e il nonno di Jean de Dieu lo facevano così. Ma non guadagnavano l’astronomica cifra di quasi 21 dollari al mese al netto delle spese. Perché il miele lo mettevano nelle bottiglie di plastica usate e non sapevano a chi venderlo.

Lui invece usa i barattoli di vetro e l’etichetta: produits naturels. Ha fatto un corso di marketing, sa dove piazzare il suo miele e a quanto.

C’è l’uomo del miele che sta per diventare ricco. C’è Madame Marguerite Rasoamanahirana, 58 anni, rimasta senza il marito e l’unico figlio ma con molta dignità, che in un altro villaggio alle porte di Antananarivo si sveglia all’alba, va al pozzo a 50 minuti da casa, torna, si prepara la colazione e incomincia a tessere tappeti fino a che fa buio, cena e va a dormire. Non ha luce elettrica ma ora sa come far concorrenza ai tappeti che vengono dalla Cina.

C’è anche Domoina Harivolaniaina, 25 anni e un figlio di tre mesi, che in un altro villaggio ancora fa cesti di vimini: ne intrecciava cinque o sei la settimana, tutti uguali. Ora ne fa molti di più, di varietà e disegni diversi. Se le chiedete quanto guadagna risponde come un imprenditore: non lo dice perché la sua è una "business venture".

Poi a Mahitsy, 45 chilometri a ovest della capitale, c’è Pauline Razanabololona. Lei è già un’imprenditrice: sarta e imprenditrice. Ora insegna il suo sapere alle figlie dei contadini del villaggio: cucito, disegno di modelli, gestione d’impresa e ancora marketing. Per finanziare sei mesi di corso e il futuro di 30 ragazze bastano 2.100 dollari.

Vicende umane ed economiche, tasselli di un disegno di 50mila microimprese e 21mila altri individui, chiamato Prosperer: acronimo del più burocratico "Programma di supporto per poli di microimprese rurali ed economie regionali".

È uno dei quattro progetti che l’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, il braccio finanziario rurale delle Nazioni Unite, fa funzionare in Madagascar. Prosperer costa poco più di 30 milioni di dollari: è finanziato per 18,8 dall’Ifad, per 6,5 dall’Opec, per 5 dal governo del Madagascar e per uno dagli stessi beneficiari: pagheranno quando entreranno nel mercato e guadagneranno perché l’obiettivo è che anche chi viene aiutato prima o poi debba aiutare. Nel progetto c’è la Camera di commercio e industria locale che in qualche modo continuerà il programma quando finirà nel 2012. È l’altro obiettivo: trasformare i "beneficiari" in imprenditori associati.

È un modello diverso di percepire l’aiuto. L’Ifad è un fondo agricolo. Dei casi citati solo l’apicoltore Jean de Dieu è un contadino nel significato più stretto del termine. Ma aiutare solo l’agricoltura in quanto tale non basta. In un altro progetto nel bacino del fiume Mandrare, nel Madagascar meridionale, l’Ifad ha ottenuto un successo spettacolare: in un decennio la produzione di riso è passata da 1.600 a 25mila tonnellate.

Tuttavia a cosa serve se attorno alle risaie non c’è un mercato; se non nasce una rete di piccole imprese delle mille attività legate al mondo rurale, anche se non strettamente all’agricoltura, che facciano crescere in modo sostenibile una società civile?

Fame in malgascio si dice «tsy mitolike», vuol dire quello che mangia senza guardarsi attorno. Qui ne sono esperti. L’80% dei 20 milioni di abitanti del Madagascar vive in campagna. Anche ad Antananarivo è difficile stabilire dove finisca la città e incomincino i campi coltivati. Sulla collina più alta il palazzo di Ranavalona III, l’ultima regina della monarchia Merina esiliata dai francesi nel 1897, si specchia sulle risaie sottostanti. Sembra il castello di Crimilde. Nel 2005 il 70% della popolazione viveva con meno di un dollaro e 25 centesimi al giorno. Oggi forse sono di più perché nel 2007 l’isola è stata sferzata dagli uragani (succede una volta ogni tre anni); nel 2008 dall’aumento globale del prezzo delle commodities; l’anno scorso da una specie di guerra civile. Il sindaco di Antananarivo Andry Rajoelina ha cacciato il presidente Marc Ravalomanana e un paio di settimane fa, dopo un ultimo tentativo dei lealisti dell’esautorato, ha proclamato con i fuochi d’artificio l’apertura della Quarta Repubblica.

Ma il Madagascar è l’isola delle cose a metà. Non c’è stato un vero colpo di stato perché dall’esilio di Pretoria Ravalomanana continua ad amministrare le sue proprietà: la metà dell’economia dell’isola. L’adesione del paese alle organizzazioni internazionali e africane è stata congelata ma il Madagascar non ne è esattamente fuori.

Anche l’isola, la sua natura e i suoi abitanti non sono più Africa ma non ancora Asia. Esistono una ventina di gruppi etnici, il più importante è quello dei Merina: letteralmente «quelli del luogo dal quale vedono lontano», cioè l’altipiano in mezzo al quale c’è Antananarivo. Ma tutti si riconoscono in un’entità pan-isolana che permette loro di guardare con grande distacco le convulsioni politiche fra il presidente usurpatore e il presidente esiliato. Nonostante il loro scontro abbia provocato 130 morti; nell’instabilità il mercato nero abbia tagliato 45mila alberi di palissandro protetti e in via di estinzione (871 container di contrabbando sono partiti per la Cina). E nonostante le entrate dello stato siano calate del 20%, i turisti del 70 e il latte sia difficile da trovare.

L’Ifad non può fare miracoli. Se non permettere a Jean de Dieu Rakotoarimalala di sentirsi a 42 anni finalmente ricco con 250 dollari in tasca.