Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore 8/1/2011, 8 gennaio 2011
IL PETROLIO INFIAMMA IL SUDAN
«Vogliamo il nostro petrolio». In mezzo alla folla il malconcio cartone che regge il piccolo Joseph quasi non si vede. L’occhio viene subito catturato dalle centinaia di grandi manifesti che inneggiano alla libertà e alla secessione, o perfino alla religione. Quello di Maria, studentessa universitaria, recita: "Anche noi cristiani vogliamo il nostro stato". I clacson, i suoni di tromba, i canti a tutto volume che irrompono dal megafono, le grandi bandiere del nuovo stato che smuovono l’aria torrida, sono un altro elemento di distrazione.
L’ultima manifestazione a favore del referendum per la secessione che si terrà domani – battezzata "l’ultimo cammino verso la libertà" – sfila per le poche strade asfaltate di Juba, la futura capitale del Sudan del sud. Al seguito dei camion e dei bus gremiti, motociclette, biciclette e pedoni. Joseph, a piedi scalzi, arranca dietro il corteo. Sembra ignorare che il messaggio scritto sul suo cartone pone l’accento sul nodo più insidioso.
Da Londra Rosie Sarp analista di Global Witnenss, Ong che ha appena pubblicato un rapporto sulla poca trasparenza che avvolge l’industria petrolifera sudanese, lo conferma: «L’aspetto più importante che riguarda la secessione è cosa accadrà alle rendite petrolifere. Senza un nuovo, equo, accordo tra nord e sud è difficile iptozzare come la separazione avvenga pacificamente». Un timore fondato. Nel continente africano il petrolio è stato spesso il casus belli di conflitti sanguinari. Qui, nel neo nato Sudan del sud, la più ambita delle materie prime potrebbe trasformarsi da maledizione in benedizione.
Quando, nel 2005, i due belligeranti, nord e sud, si sedettero al tavolo per porre fine a una guerra durata 22 anni e costata due milioni di vittime, la ragione principe era di permettere alla produzione petrolifera di decollare per spartirsi le massicce rendite energetiche. Oltre a fissare i due referendum, quello che inizierà domani, e quello futuro sulla contesa area di Abyey, il Comprenhensive peace agreement (Cpa) prevedeva la ripartizione delle risorse, il 50% ciascuno. Per quanto il 75% della produzione di greggio arrivi dal sud, nelle casse del governo di Khartoum sono arrivati da allora almeno sette miliardi di dollari. Anno dopo anno, con l’arrivo imponente delle compagnie cinesi, il Sudan ha assistito a una crescita vigorosa dei suoi conti e della produzione petrolifera che nel 2010 ha toccato mezzo milione di barili al giorno. Questo nonostante l’isolamento internazionale e le sanzioni americane.
Nel 2006, ma anche nel 2007, il Pil, che però partiva quasi da zero, è balzato del 10 per cento. Il trend è poi proseguito. Nel 2008, anno in cui il prezzo del barile ha toccato il record di 147 dollari, è salito del 7%, e nel 2009 poco meno. Nel 2010 è stato del 4-5 per cento. Ancora oggi il greggio rappresenta il 90% in valore dell’export del paese; i due terzi vanno in Cina. I ricavi energetici coprono il 45% delle entrate governative del nord e il 98% di quelle del sud.
Lo sa bene Mustafa Osman Ismail, portavoce del presidente sudanese al–Bashir. Fu lui, allora ministro degli Esteri, l’architetto del Cpa. «Non nascondo che la nostra economia sarà danneggiata in caso di secessione, ma possiamo andare avanti anche senza il petrolio del sud». La grande speranza è che ora l’oro nero funga da collante tra i due paesi. Per una semplice verità, spiegata in modo pragmatico da Mr. Osman: «Molto del petrolio viene estratto nel sud. Ma non possono fare a meno dei nostri oleodotti per trasportarlo. Né dei nostri impianti per raffinarlo, tanto meno possono trovare sbocchi alternativi ai nostri porti per esportarlo. Insomma abbiamo bisogno l’uno dell’altro».
Nel ministero degli Affari legali di Juba ci riceve l’uomo del momento, John Luk Jok. Da poco è stato promosso ministro del Referendum, un ruolo che richiede sforzi titanici. Prima era ministro del Petrolio. «Se dovesse vincere la secessione, il Sudan del sud diverrà uno stato sovrano, con confini propri e con sovranità sulle materie prime» esordisce. «Stiamo studiando i nuovi contratti. I giacimenti che si trovano a cavallo tra i due confini saranno gestiti congiuntamente». Anche Luk Jok ritiene necessario un accordo con Khartoum. Il progetto di un oleodotto che colleghi i pozzi del sud al porto kenyota di Mombasa è lontano. «Abbiamo tempo fino a luglio, quando scadranno i termini del Cpa» continua. Ma il tempo scorre veloce, soprattutto quando si tratta della spinosa questione di Abyey, la regione contesa, il khasmir sudanese, la scintilla che potrebbe far scoppiare l’incendio. È un piccolo territorio ricco di acqua e greggio. «Farà parte del nord fino a che la gente non deciderà con referendum di unirsi a noi» precisa Luk Dok.
E i contratti già firmati con le compagnie cinesi, indiane, indonesiane? «Li onoreremo. E se diventeremo un paese sovrano decideremo noi a chi affidare le gare per l’esplorazione dei nuovi pozzi». Anche a europei e americani? «Sono benvenuti tutti». Un’ipotesi malvista da Pechino ma soprattutto da Khartoum. Corre voce che qualche petroliere si aggiri già negli uffici della futura capitale. E corre voce che non si tratti di businessman dagli occhi a mandorla.