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 2011  gennaio 09 Domenica calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 64 - I CAFFÈ DI TORINO

Al caffè per leggersi il giornale gratis? Quattro centesimi e mezzo di consumazione, giornale a disposizione, e potevi trovarti seduto vicino a un ministro. I caffè erano in pratica dei club politico-letterari, frequentandoli avevi la sicurezza di incrociare le celebrità del momento, Brofferio, Silvio Pellico o lo stesso Cavour. Giovanni Prati faceva dentro e fuori dai portici di via Po (caffè Diley), gridando versetti patriottici. Con quel vocione, con quel corpaccione.

Cavour andava al caffè? Al Fiorio, che era reputato il locale dei codini, e veniva quindi detto «Caffè Radetzky». Ogni mattina Carlo Alberto apriva le riunioni con la domanda: «Qu’est-ce qu’on dit au Cafè Fiorio?» . Prima di diventar re, andava al Fiorio anche lui. I caffè erano il luogo dell’opinione pubblica. Il binomio caffè-giornali era ovvio. Se c’era un caffè dei codini, ci sarà stato pure un caffè dei liberali o magari un caffè dei democratici. C’era un caffè dei liberali, un caffè dei democratici, un caffè degli artisti, un caffè degli scienziati, un caffè dei magistrati, un caffè dei repubblicani, un caffè degli attori. Il Vassallo, il Bedotti, il Rondò, il Piemonte, il Calosso - camerieri in nero, guanti bianchi -, il Progresso, il Sardegna, dove un giorno era approdato il meraviglioso nano Tom Pounce del Connecticut e aveva gridato Viva l’Italia, e quindi l’avevano voluto pure al Vassallo. I caffè, specialmente a partire dagli anni Trenta, s’erano andati sviluppando parecchio, per esempio questo Caffè del Progresso, costruito dal marchese Birago alla Vanchiglia, cioè in un posto disperso in mezzo ai prati che non si capiva chi ci sarebbe andato, era sempre vuoto al piano strada e sempre pieno nelle sale sotto terra, che figuravano esser cantine e avevano delle botti in cui ci si nascondeva all’arrivo della polizia. Tra il ‘45 e il ‘48 avevano aperto, o s’erano ampliati, il Caffè delle Alpi, il Caffè L’Alta Italia, il Caffè Borsa, il Caffè del Commercio, il Gallo, il Londra, il Meridiana, il Moka, il Parigi, il Romano, il Tortona…

Ma quanti ce n’erano? Novantotto. Più 30 liquoristi e 40 che servivano solo birra. Il Casalis li dice « tutti magnificamente arredati, messi a oro, marmi, specchi, pitture, e cotanta loro eleganza vien fatta meglio spiccare nella notte dal gas che a profusione li illumina» . In effetti i padroni dei locali, visto il traffico in aumento, avevano chiamato artisti di fama a rifare ambienti e arredi. Per esempio l’architetto Panizza, lo scultore Baglioni, i pittori Morgari e Gonin. Dovendosi far nuovo il Caffè delle Colonne di via Po (poi Vassallo, poi patriotticamente Nazionale), l’avevano riempito di «sculture offrenti tazze, sul fondo si spiega un’iride attraversata da un’aerea figurina che sventola i vessilli nazionali, nella volta le Grazie, nell’altra sala soffitto con le Arti» (così un Cicconi in un estasiato reportage sul «Mondo illustrato») e in più i leoni di pietra all’ingresso e «l’ingegnoso meccanismo della porta in cui anziché aprirsi ignobilmente sui cardini, spare dal guardo occultandosi in una laterale fessura» (Baratta). Gli altri non erano da meno. Il Progresso aveva una sala foderata di seta, il Madera, dove si offriva una scelta tra 110 testate tenute in certe cartellette ben allineate sulla parete, aveva specchi retti da otto donzelle medievali e otto cavalieri con l’armatura, e affreschi in cui Gabriella di Vergy confida all’ arpa i suoi sospiri pel lontano crociato, Elodia infiora la tomba del Solitario, Sofonisba si toglie la vita, Caio Mario disarma il soldato…

Roba un po’ kitsch però, no? C’erano ovunque divani di velluto rosso. Bisognava dare al cliente l’impressione di trovarsi in uno di quei salotti esclusivi della città dove, senza esser conte o marchese, non saresti entrato neanche morto. Le case degli Sclopis, dei Doria di Ciriè, dei conti Benevello, dell’Eufrasia di Masino o della Giulia di Barolo, la vandeana. Qui si respirava un’aria tra «il monacale e il militaresco» (Savio), si rimpiangeva il Vecchio Piemonte, si criticava l’incomprensibile politica italiana di Carlo Alberto. E dove avrebbero potuto discutere delle cose loro, se non al caffè, i militari e gli intellettuali senza quarti di sangue blu, i commercianti inquieti, i pallidi esiliati del ‘21 riammessi in città, i profughi da Venezia, da Milano, da Napoli che campavano negli abbaini (a proposito, Cavour aveva chiesto pezzi anche al napoletano Antonio Scialoja), le varie fazioni della destra e della sinistra, i moderati, i valeriani, i mazziniani? Il caffè era un posto da uomini, dove si fumava, si gridava e si andava fuori per pigliarsi a cazzotti, la polizia fingeva di non vedere, nessuna salonnière interveniva a moderare la conversazione. Roberto d’Azeglio, capo del popolo in quel momento, faceva dentro e fuori per dar conto dell’ultima patente emanata da Palazzo Reale, invitava tutti a uscire in strada per rendere omaggio al re, poi ordinava di cantare, poi di star zitti, poi di rientrare che il re non voleva rumori e la piazza lo metteva inquieto, oltre tutto in quel dicembre del ‘47, in quel gennaio del ‘48 un gran manto di neve aveva ricoperto la città…