MARIO BAUDINO,La Stampa 10/1/2011, pagina 31, 10 gennaio 2011
Cari ragazzi, facciamo come i garibaldini - Tutte le volte che parlavo di un romanzo sul Risorgimento, quello che stavo scrivendo, mi accorgevo che i miei interlocutori storcevano un po’ il naso»
Cari ragazzi, facciamo come i garibaldini - Tutte le volte che parlavo di un romanzo sul Risorgimento, quello che stavo scrivendo, mi accorgevo che i miei interlocutori storcevano un po’ il naso». Forse perché il Risorgimento continua a essere fuori moda, nonostante tutto? «Non mi sono mai domandato quanto interesse avrei potuto scatenare nelle case editrici». Alessandro Mari ha semplicemente scritto, per anni, il suo romanzo d’esordio. Troppo umana speranza , appena uscito da Feltrinelli e già salutato come un libro rivelazione (per esempio da Sergio Pent su Tuttolibri ) è cominciato alla scuola Holden di Torino, e fra riprese e abbandoni è andato avanti per un tempo che potrebbe sembrare inusuale. Poi, verso il 2005, ha cominciato a prendere il passo giusto, e alla fine è arrivato al traguardo con le sue 749 pagine che raccontano una decina d’anni nella giovinezza dell’Italia, dal 1839 al 1848, intelaiati sul matrimonio contrastato fra due contadini lombardi, Colombino e Vittorina. Alla fine, dopo aver chiesto consiglio al Papa e a Giuseppe Garibaldi, il ragazzo sceglierà il responso dell’eroe, e trascinato dalla storia rapirà la sua amata che «ha gli occhi belli come quelli d’una mucca». C’è quasi un disegno provvidenziale. Mari, non è che ha voluto misurarsi con i Promessi Spos i? «Non ci ho mai pensato. Però me l’hanno fatto notare in parecchi, dopo aver letto il libro. L’unica citazione esplicita, il riferimento cosciente, è stato mettere un riferimento a "messer Manzoni" all’inizio della storia». E chiamare Lisander uno dei protagonisti, il pittore che diventa fotografo, spacciatore di immagini pornografiche e reporter della rivolta milanese contro gli austriaci. «È un bel nome lombardo. Per la scelta del vocabolario e della sintassi mi sono però rifatto a quella tradizione linguistica che per me ha al centro Ippolito Nievo. Ci sono riferimenti espliciti alle Confessioni di un italiano , per esempio nella descrizione di una cucina, coi paioli di rame appesi al muro. I lombardi del resto li ho dentro, come lettore» Magari fino a Gadda? «Non per l’espressionismo verbale. A me piacciono le storie di trama, anche se l’inizio non ha un taglio da lettura né facile né accattivante. I miei riferimenti principali sono semmai stranieri». Se fosse scritto in inglese verrebbe da definire il suo un romanzo neo-vittoriano. C’è una cura linguistica molto attenta alla patina ottocentesca dello stile, se pure con improvvisi scarti moderni. «Non saprei raccontare il passato con il linguaggio del presente». Alcuni suoi coetanei lo hanno fatto. «Sì, ma il mio non è un problema di vicinanza o meno a correnti letterarie. Non ho cercato consonanze o dissonanze con gli altri. Semplicemente mi è venuto così». Perché l’Ottocento, e perché il Risorgimento? «Questo romanzo è nato con Colombino. Avevo in mente lui, un personaggio ricco d’umanità e anche di animalità, che viene considerato un idiota; e ho cercato un tempo che fosse adatto. Ho trovato quegli anni, che peraltro avevo studiato all’Università. La realtà emotiva, sentimentale, “giovane” del primo Ottocento è quella di Colombino». Un eroe umile del Risorgimento? «Diciamo del pre-Risorgimento: quel periodo, che ho molto frequentato con l’immaginazione, mi ha lasciato un po’ di nostalgia, soprattutto per quell’energia della nostra giovinezza come Paese, in cui il sentimento prevaleva non solo sulla politica ma anche sull’azione» Mazzini, il giovane Garibaldi che combatte in Sud America, i fratelli Bandiera, i martiri, la Repubblica Romana. Un’epoca di grandi speranze. Di qui il titolo? «Guardi, quando leggo le lettere dei fratelli Bandiera, giustiziati a Cosenza dopo aver tentato una sollevazione, mi vengono le lacrime agli occhi. Quella loro speranza di cambiare le cose da sotto, dal basso, mettendo a disposizione ogni loro energia, è una forza che mi commuove. Non ha colore politico, è stata di sinistra o di destra secondo i tempi, ed è un sentimento attuale». In che senso? «Nel senso della forza di resistere agli accidenti delle nostre vite, nonostante tutto. Di ripartire sempre». Come fanno i suoi personaggi? «E come fanno le generazioni giovani di oggi, per quanto bistrattate. È ancora così, anche se adesso manca un vettore, qualcosa che indirizzi questa forza vitale. Allora quella carica era nell’aria, venne trovata, utilizzata, seguita». Verso dove? Le storie in qualche modo non si concludono. «Colombino non sa che la Repubblica Romana è già stata soffocata nel sangue, e decide che andrà a Roma, che cercherà Garibaldi. C’è un sentimento declinato in quattro modi diversi. Ovvio per alcuni - pensiamo a Garibaldi, un uomo che ha compiuto imprese inimmaginabili - meno per altri». Per esempio Leda, fuggita da un convento e arruolata a forza dai servizi segreti britannici per spiare Mazzini, che si ribella e diventa mazziniana. Un vero personaggio da feuilleton, tra colpi di scena mirabolanti. «Io adoro i feuilleton. Mi sarebbe piaciuto che questo romanzo fosse pubblicato a puntate». Leda capisce una sola cosa: Mazzini forse può toglierci dalla «merda», così dice. Il suo libro comincia con Colombino «il menamerda», che vende concime benedetto ai contadini e prosegue fra odori, sudori, puzze, umori corporali d’ogni genere. «Perché l’Ottocento non è il marmo monumentale. Colombino non ha paura di trafficare tutto questo. Per me ha una grande affinità con Garibaldi, e mi piace soprattutto il momento in cui si parlano, discutendo di amore e di contadini della pianura lombarda. Per quei discorsi ho attinto dalle memorie di Garibaldi».