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 2011  gennaio 10 Lunedì calendario

Eastwood, duello all’ultimo sangue sull’Aldilà - In fondo è il bello del cinema. Quando si esce dalla sala e si incomincia a litigare

Eastwood, duello all’ultimo sangue sull’Aldilà - In fondo è il bello del cinema. Quando si esce dalla sala e si incomincia a litigare. «Un capolavoro». «Una boiata pazzesca» (tanto per citare l’insensibilità del ragionier Fantozzi davanti alla «Corazzata Potiomkin»). E’ il destino di alcuni film eletti, quello di dividere gli spettatori fra chi s’innamora e chi s’indigna. Film come «Hereafter» di Clint Eastwood (appena uscito nelle sale italiane con ottima risposta di pubblico, subito dietro cinepanettoni e cinebefane), che suscitano forti reazioni emotive e intellettuali, vuoi per gli argomenti trattati, vuoi per le scelte degli autori. O li si ama o li si detesta. In questo caso il tema è impegnativo, l’Aldilà, con tutto l’inevitabile bagaglio di timori e convinzioni, speranza e scetticismo. Inevitabili le discussioni. Ma le platee del mondo sono riuscite anche a litigare su «Avatar» di James Cameron o sul «Codice da Vinci» di Ron Howard, per ricordare i casi più recenti. Per il blockbuster tratto dal libro di Dan Brown, i contrasti affondano le radici nel passato: al centro della storia c’è infatti l’antica ipotesi di una cospirazione della Chiesa (soprattutto dell’Opus Dei) per coprire la vera storia di Gesù che avrebbe avuto dei figli da Maria Maddalena. Ipotesi che ha da sempre sostenitori entusiasti e detrattori accaniti, pronti puntualmente a riconfrontarsi all’uscita del film. Più immediate e viscerali le reazioni al film «Avatar»: chi usciva dalla sala stordito e incantato dalla bellezza e dalla potenza delle immagini in 3D e dei colori, chi notava implacabilmente la puerilità della trama, con il solito cliché dei buoni selvaggi, in questo caso alieni, salvati dal «messia bianco», il tutto condito con una spruzzata di buonismo ecologista. Non mancarono anche le dietrologie politiche americane, quasi il film fosse una metafora della guerra in Iraq. Per «Apocalypto» invece fu prima di tutto un problema di autore: Mel Gibson sia nella vita che al cinema è un uomo scomodo, nato per dividere. I suoi film sono spesso violenti sia come immagini che come tesi, basti pensare alla sua sanguinosa rilettura della «Passione» di Gesù Cristo. In questo caso la presentazione dei Maya come un popolo sanguinario e primitivo ebbe i suoi fan e i suoi detrattori. Un altro autore che si odia o si ama è Quentin Tarantino: ma con «Bastardi senza gloria» ha corso un rischio in più: il film è un’irriverente rilettura della Storia con la S maiuscola, il nazismo, l’Olocausto: materie su cui in molti sono convinti che non si debba in alcun modo scherzare. Per motivi in parte analoghi il prossimo film che dividerà l’Italia esce la prossima settimana: si intitola «Vallanzasca - Gli angeli del male», è firmato da Michele Placido e ricostruisce la storia del bandito che negli anni 70 insanguinò Milano. Il protagonista è Kim Rossi Stuart, troppo bello secondo alcuni per non diventare un eroe, nonostante sia stato indubbiamente un criminale. E usciti dalla sala in molti si chiederanno: «E’ giusto trasformare in romanzo le sofferenze reali?». Altri replicheranno: «L’arte non ha confini». E via litigando. Senza dimenticare che il confine tra capolavoro e «boiata pazzesca» è molto sottile. RAFFAELLA SILIPO *** Perché mi è piaciuto - Hereafter , il nuovo film di Clint Eastwood, ha tutte le caratteristiche per essere schifato dalla critica perbene: parla dell’aldilà – tema oggi tabù, anche nella predicazione clericale – e per giunta lo fa mettendo al centro un sensitivo e le esperienze di pre-morte raccontate da molti uomini e donne finiti in coma. Tutta roba che un certo ambiente considera paccottiglia da baraccone. Non so se, oltre a tanti imbroglioni, esistano davvero medium attendibili; non so neppure se le «visioni» descritte da chi è stato sulla soglia della morte siano un indizio oppure allucinazioni. Naturalmente non so neppure se ci sia una sopravvivenza dopo la morte, e su questo sono in compagnia di quasi sette miliardi di nostri contemporanei. Ma sono certo che non ce n’è uno, di questi quasi sette miliardi, che non si sia mai posto la domanda: compresi quelli che dicono di aver cose ben più serie cui pensare. Quali cose «più serie»? Il grande Eastwood mette alla berlina simili atteggiamenti quando fa dire, all’editore francese che respinge la proposta di un libro sul tema, che «un testo del genere semmai può interessare il mercato americano». Come dire quei beoti di americani. Forse che i francesi non muoiono? Dalla giornalista che gli proponeva il libro sul grande enigma, l’editore si attendeva invece un libro su Mitterrand: quello sì che è un argomento serio. E lo è certamente, per carità: come lo è tutta la politica, l’economia eccetera. Argomenti importanti. Ma che non avranno nulla da dirci nel momento in cui ci troveremo a faccia a faccia con il nostro destino. Ecco perché Hereafter , sbucato in mezzo a tanti cinepanettoni, ha il merito (e il coraggio) di metterci davanti alla Questione per eccellenza. Ma non è l’unico merito. Hereafter non è un film cialtrone, non vende consolazioni spacciate per prove. Il tema è trattato con delicatezza e realismo: tutti ci interroghiamo su un possibile «dopo», ma nessuno ha risposte. Non le ha il credente, ma non può averle neppure l’ateo più incallito che si appella a una scienza (il vero dio del nostro tempo) la quale in realtà di ogni cosa può spiegare il «come», ma non il «perché». Margherita Hack, che è presidente dell’Unione degli atei, ha ammesso che il suo ateismo non discende dalle scoperte scientifiche: anzi, l’essere astrofisica l’ha posta di fronte a un mistero, quello dell’universo e della vita, che le farebbe pensare a un Creatore; ma respinge l’ipotesi perché le sembra «troppo infantile». Alla fine, per tutti, la risposta è dunque una scelta soggettiva, non oggettiva. Noi cerchiamo ma non troviamo, e forse è meglio così. Essere sensitivi, dice Matt Damon nel film, «non è un dono ma una condanna»: la stessa convinzione del torinese Gustavo Adolfo Rol, uomo che ha affascinato tutti i grandi della Terra. Ma Eastwood, e questo è un altro dei suoi meriti, ci mostra pure che l’aspettativa di un «dopo» non toglie nulla al «durante»: anzi, gli dà un senso. Se tutto finisce sotto un metro di terra, perché sbattersi tanto? Dentro ognuno di noi c’è come un grido che chiede l’eternità. E una delle tante cose belle, struggenti che Hereafter ci comunica è che un indizio di eternità comincia nei rapporti umani, nell’amore verso i nostri simili. Il cuore, diceva Pascal, ha delle ragioni che la ragione non conosce. MICHELE BRAMBILLA **** Perché non mi è piaciuto - La critica americana ha accolto «Hereafter», l’ultimo film di Clint Eastwood, con molta freddezza, spesso stroncandolo; quella italiana, al contrario, nella maggior parte dei casi, ha parlato addirittura di un capolavoro. Ci verrebbe da dire: non esageriamo! Nel senso che, da un lato, non sembra un’opera così mediocre o inutile da dirne il male possibile; ma dall’altro non ha quelle caratteristiche estetiche (nel più ampio significato del termine) da farne un’opera d’arte. Si tratta, a ben guardare, di un «classico» film dell’Eastwood regista, attento a condurre nel migliore dei modi possibili il gioco degli attori, a raccontare con semplicità e coerenza spettacolare una storia (in questo caso le storie sono tre!), a costruire le immagini e le sequenze seguendo quel modello hollywoodiano che si può definire «classico». Niente di più, ma semmai molto di meno, dei suoi film più riusciti, come «Gli spietati», «Mystic River» o il dittico «Flags of Our Fathers» - «Lettere da Iwo Jima». Come si sa, alla base di «Hereafter» c’è la morte, e non già, come suggerisce il titolo, l’aldilà. Perché di ciò che potrà succedere oltre la morte non si parla, se non in termini alquanto vaghi, di poco spessore spirituale. E dire che sarebbe stato un tema di grande interesse e suggestione, indipendentemente dalle diverse opinioni e credenze. Un tema complesso, che avrebbe posto al centro del dramma una questione discriminante, nel senso che il rapporto con l’«aldilà» significa essenzialmente porsi il problema della vita e delle sue ragioni esistenziali. Un tema che alcuni grandi registi come Theodor Dreyer o Ingmar Bergman avevano affrontato in alcuni film di grande valore. E che un regista americano d’oggi, come David Lynch, a differenza di Eastwood, avrebbe probabilmente trattato in modi e forme ben altrimenti coinvolgenti. Qui è la morte presunta della giornalista francese a determinarne le scelte di vita, così come, per il bambino inglese, la morte del fratello gemello, o ancora, per il veggente americano, la morte degli altri. Una morte che è soltanto un pretesto per raccontare le vicende personali di tre personaggi – indubbiamente ben tratteggiati secondo le regole del cinema classico – che si incontreranno in un finale particolarmente banale e scontato. E dire che la sequenza d’apertura, con l’ampia ripresa drammatica dello tsunami, faceva sperare in un racconto altrettanto intenso e coinvolgente, in cui fatti e personaggi venivano ad assumere uno spessore tragico inusitato. Uno spessore che avrebbe aperto le porte a un’analisi del rapporto fra vita e morte, o addirittura a una visione dell’aldilà, che non ci avrebbe lasciati indifferenti. Invece pare che la morte, come nella maggior parte dei film diretti o interpretati da Eastwood, costituisca soltanto un elemento del racconto, un semplice spunto drammaturgico, come nei suoi western o nei suoi polizieschi. Peccato. Ma era difficile che un regista come lui fosse capace di andare oltre le apparenze, scavando in profondità nell’animo umano. D’altronde, come egli ha detto a «Hollywood Party» (riportato l’altro giorno da «L’Unità»): «Farei SOLO western». GIANNI RONDOLINO