Cristiana Mangani, Il Messaggero 08/01/2011, 8 gennaio 2011
IL PM: «HA UCCISO SIMONETTA». CHIESTO L’ERGASTOLO PER BUSCO
«È stato un delitto aggravato dalla crudeltà: ventinove coltellate su tutto il corpo», che costano all’imputato Raniero Busco la richiesta della pena all’ergastolo. Il pubblico ministero Ilaria Calò conclude la sua requisitoria durata due udienze, sostenendo che, «oltre ogni ragionevole dubbio», il meccanico di Morena è colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. Fine pena mai è, per lei, la condanna necessaria per chi ha ucciso con così tanta efferatezza. Ilaria Calò è un pm di corporatura esile, con il sorriso sempre sulle labbra, ma quando si rivolge alla Corte d’Assise mostra un piglio energico e la giusta convinzione. Sa che la procura ha fatto l’impossibile per cercare di trovare una verità che reggesse, anche se, a vent’anni di distanza, non sarà facile per il presidente Evelina Canale e per il giudice a latere Paolo Colella, emettere un verdetto.
Cosa resta, quindi, della requisitoria? Qualche indizio, questo sì, ma anche molte tesi suggestive, ricostruzioni che si prestano a doppie o triple interpretazioni. Basteranno per una condanna così pesante? Perché se è vero, come dice il pm - che «negli uffici degli Ostelli c’erano solo tracce di Busco e del suo Dna», è pur vero che in quegli stessi uffici non è stata trovata alcuna altra traccia, neanche di chi ci lavorava. Era tutto pulito e candeggiato. Calò però insiste: «Non ci sono ipotesi alternative alla responsabilità dell’imputato, né alla presenza di un sottogruppo del suo codice genetico sulla porta dell’ufficio dove fu trovata morta Simonetta, o anche alla presenza del suo Dna parziale mischiato al sangue della ragazza. E non bisogna dimenticare che l’imputato ha sempre detto di non essere mai andato nella sede in Prati».
Il rappresentante della pubblica accusa esclude, poi, l’ipotesi che a commettere l’omicidio possa essere stata un’altra persona. E sembrano pensarla come lei anche i familiari della vittima, che non hanno mai parlato in questi mesi. Per la sorella Paola, infatti, «la tesi della procura è quella giusta. Altrimenti il pm non avrebbe chiesto l’ergastolo. Per noi, Busco è il colpevole del delitto di Simonetta», dice. E infatti - aggiunge la Calò - «non sono stati rilevati Dna o tracce di altre persone. Non è possibile ipotizzare che a uccidere sia stato qualcun altro, a meno che non si tratti di un’entità intracorporea, di qualcuno che non ha lasciato nulla di sé». E ancora: «non esistono ipotesi alternative, né logiche né lecite, che giustifichino la presenza di un morso di Busco sul seno di Simonetta e la presenza di saliva in corrispondenza del morso stesso». «Le prove scientifiche raccolte - afferma il pm - dimostrano che l’ipotesi accusatoria è supportabile milioni di miliardi di volte in più rispetto a quella difensiva». La sua certezza, poi, è che «in corrispondenza di entrambi i capezzoli della ragazza e sul suo reggiseno sono state trovate tracce di Dna riconducibili a Busco senza dubbi», e che la dinamica porta a «29 lesioni da punta e taglio, tutte prodotte in un brevissimo lasso di tempo, mentre l’aggressore stava a cavalcioni sulla vittima», nonché a un trentesimo taglio «sulla clavicola che ha una crosticina ematica uguale a quella sul morso al seno».
Il magistrato si sofferma sull’aggravante della crudeltà. «Sarebbero bastati tre colpi per uccidere Simonetta - insiste la Calò - quello al cuore, all’aorta e ai polmoni. Invece no, ha continuato: intestino, fegato, ventre, quattro lesioni nell’area genitale esterna e due in quella interna, sei lesioni agli occhi. I primi quasi una sorta di rappresaglia, i secondi con il significato simbolico di garantire il silenzio testimoniale». Ragionamenti che, secondo l’accusa, il meccanico di Morena avrebbe fatto mentre uccideva la sua fidanzata stordito da un raptus. Sulla base di tutto questo - è la conclusione - «il pm ritiene che sia stata raggiunta con certezza la piena prova della colpevolezza e sia stata esclusa la possibilità di un altro scenario». Quasi a dire, però, che si è giunti a lui perché non si è trovato altro.
L’imputato ieri non era in aula, era a casa malato con l’influenza. C’era la moglie Roberta, che non ha perso un’udienza. Ha preso appunti, ascoltato in silenzio, è sembrata quasi tranquilla, fino alla richiesta della condanna, quando si è fatta pallida, ha chiuso il quaderno su cui aveva scritto fino a un minuto prima, e si è sfogata: «Pensavamo cercassero la verità, cercavano solo un colpevole».