Claudio Sardo, Il Messaggero 08/01/2011, 8 gennaio 2011
BONANNI: «GIUSTO CAMBIARE PRIORITA’, MA LE RIFORME SI FANNO INSIEME»
«Bisogna cambiare l’agenda del Paese per fare le riforme necessarie. Apprezzo le riflessioni di Pier Luigi Bersani anche perché la Cisl dice queste cose da tempo. È una sfida però che riguarda ciascuno di noi, i partiti come le forze sociali, la maggioranza come l’opposizione. Siamo arrivati a un punto critico: nessuna parte da sola ha le forze per superare le resistenze e togliere di mezzo le macerie». Raffaele Bonanni risponde alla lettera del segretario del Pd pubblicata ieri dal Messaggero.
E il segretario della Cisl insiste sulla necessità di un impegno «comune e inderogabile dei riformisti del centrodestra e del centrosinistra. Stiamo bruciando le risorse accumulate negli ultimi decenni e non ce la caveremo scaricando sugli altri le responsabilità».
Bersani però fa un’analisi molto critica del decennio berlusconiano e spiega il suo appello a progressisti e moderati proprio con la necessità di andare oltre Berlusconi. Lei cosa ne pensa?
«Penso che i problemi siano cominciati da almeno vent’anni. È da allora che mancano le riforme, perché le abitudini e le furbizie della politica hanno prodotto alla fine solo inerzia. A mio giudizio il governo Berlusconi è riuscito a mettere l’Italia al riparo dai rischi maggiori della crisi finanziaria. Tremonti ha protetto la finanza pubblica e ha trovato le risorse per la Cassa integrazione. Ma non c’è dubbio che si tratta del minimo indispensabile. Tutti i problemi strutturali sono rimasti quelli di prima, e dunque nell’ulteriore inerzia si sono aggravati. Onestamente però va detto che il governo muove solo la metà del bilancio pubblico. Anche le Regioni e i Comuni, amministrati dal centrodestra e dal centrosinistra, vanno inclusi nel medesimo giudizio critico visto che muovono l’altra metà del bilancio».
Quale soluzione propone allora?
«Bisognerebbe fare come in Germania, dove la Merkel ha guidato per quattro anni un governo di Grande coalizione ottenendo risultati significativi per il Paese. Non so se sarà possibile da noi. Ma i partiti facciano almeno un patto: fissino un’agenda di priorità e, dopo un confronto in Parlamento, si impegnino ad affrontarle insieme. Dicano con chiarezza: questi problemi si possono affrontare solo di comune accordo. Perché ormai è chiaro che, nel conflitto, le lobbies, i monopoli, gli interessi locali, le resistenze corporative alla fine sono più forti delle volontà di riforma. Basti guardare ciò che accade sull’energia: non facciamo il nucleare, ma al tempo stesso basta la ribellione di qualche gruppo per fermarci anche sui rigassificatori e persino sull’eolico o sul fotovoltaico».
In cosa potrebbe consistere questa agenda comune di priorità?
«Basterebbe un accordo su due punti per avviare la riscossa del Paese. La qualità delle entrate e la qualità delle spese. Due punti chiari, comprensibili ai cittadini. Sulle entrate: il livello di evasione fiscale è scandaloso, ma è scandaloso anche che i poveri paghino percentualmente più dei ricchi e che le tasse sui capitali finanziari siano la metà di quelle su investimenti e lavoro nelle manifatture e nei servizi. Sulle uscite: la pletora del potere e del sottopotere politico è ormai insopportabile, bisogna tagliare. A cosa servono sei livelli istituzionali (Stato, Regione, Provincia, Comune, Comunità montana, Circoscrizione) quando un Paese federalista come la Germania ne ha tre? Serve solo a peggiorare la politica e fornire il brodo di coltura della corruzione».
Il segretario del Pd sostiene che l’incapacità di riformare è conseguenza della torsione populista del sistema. È d’accordo?
«Condivido l’analisi. Ma mi rafforza ancor più nell’idea che le riforme si faranno solo insieme, coinvolgendo nel patto forze politiche e sociali. Peraltro questa pessima legge elettorale ha anche accentuato una deriva oligarchica. Se non riavviamo un processo partecipativo, la politica resterà senza ossigeno».
Lei auspica un patto sociale. Ma di che tipo? La Cisl ha firmato l’accordo del ’93, ma anche l’accordo separato con la Confindustria guidata da D’Amato. C’è bisogno di tutti i contraenti oppure si può fare a meno di qualcuno?
«Noi abbiamo firmato tutti i patti sociali, compreso quello durante il governo Prodi, perché crediamo ai patti. Chi ne ha firmati solo alcuni, ha fatto prevalere logiche politiche. Anche il patto con D’Amato fu utile al Paese e portò benefici ai lavoratori. Mi auguro che ora sia arrivato il momento della responsabilità per tutti: se poi qualcuno si sfila, non possiamo mica arrenderci».
Quanto peserà la vicenda Fiat sul futuro delle relazioni politiche e industriali?
«Già contano molto gli accordi di Pomigliano e Mirafiori. L’Italia ha bisogno degli investimenti Fiat se vuole avere un futuro industriale. Compito del sindacato è negoziare le condizioni migliori per i lavoratori, sapendo che l’accordo è parte non secondaria del consenso dei mercati all’investimento. Ora spero che il sì prevalga al referendum e che poi la Fiom firmi. Ma sarebbe un cambio di direzione per la Fiom. Il Pd di Bersani chiede, per quanto riguarda le norme sulla rappresentanza sindacale, che si applichi l’accordo interconfederale del 2008: sono d’accordo ma ricordo che, nonostante la firma della Cgil, fu la Fiom di fatto a bloccare quell’accordo».