Giorgio Dell’Arti, La Stampa 8/1/2011, PAGINA 86, 8 gennaio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 63 - MARKETING OTTOCENTESCO
Tutto questo servì a Cavour? Perché tra il giornalismo e la politica… Il conte disse poi che il periodo del «Risorgimento» era stato essenziale per la sua formazione: «Uno scrittore che obbedisca ad un convincimento e che serva la causa dei principii, trovandosi nella necessità di dover manifestare al pubblico i suoi concetti tutti i giorni, acquista l’abitudine di discernere quali sieno le cose che vanno dette e quali quelle che non vanno dette. Ogni giorno acquista quel tatto che è tanto utile, tanto necessario nel trattare gli affari politici. È una scuola di tutti i giorni, nella quale tutti i giorni si perfeziona. Se non fossi stato giornalista non sarei divenuto uomo politico» (testimonianza del Massari). Resta da dire qualcosa su tipografia, amministrazione, distribuzione, pubblicità, marketing. La tipografia? Cotta e Pavesio, in via dell’Arcivescovado, «casa Avena in faccia alla portina della chiesa della Madonna degli Angeli, dove si trovano pure gli uffizii della Direzione del Giornale» . Quanti tipografi avranno avuto? Due o tre, direi, su sei-sette dipendenti. A quell’ epoca gli articoli si componevano a mano, lettera per lettera. Per pubblicare il resoconto di un fatto di oggi, ci volevano trequattro giorni almeno. Cambiarono poi parecchie tipografie. I tipografi erano gli operai meglio pagati, anche 21 lire a settimana. Del resto, dovevano saper leggere e scrivere. A Londra avevano spiegato a Cavour che non era neanche il caso di considerarli operai.
La pubblicità? C’era. Poca roba, messa tutta in quarta. «Annunci a 15 centesimi per linea con un deposito proporzionale al numero delle loro linee» . Cosette divertenti. Per esempio: « Atlante matematico universale ovvero corso compiuto di matematica elementare con nuovo e facile metodo iconografico compitato dal geometra Enrico Tirone» . Oppure: «Si offrono diecimila franchi a chi proverà che l’acqua di Lob non ferma la caduta dei capelli e non li fa ricrescere même sur les têtes chauves » con offerta speciale «pour les coiffures des Dames» e invito a ritirare la pozione «chez M. Ostorano, coiffeur, rue Porte-Neuve n. 6 à Turin» .
L’amministrazione? A quello che si capisce, Cavour si occupava anche dei conti. Del resto, chi aveva più pratica di lui in quelle faccende? Giornalisti e collaboratori, come abbiamo visto, venivano pagati piuttosto bene, ma il povero Tommasoni, che aveva preso il posto di Massimo da Roma, non beccò una lira. «Il signor Tommaso Tommasoni, che stante il suo nome dev’essere un buon uomo…» appuntò Cavour, e lo lasciò poi a secco. Il problema più spinoso fu quello del prezzo. Come stabilirlo fino a quando non si fosse saputa l’entità del bollo da versare al governo? «Se il dazio di 5 centesimi il foglio non è diminuito, la nostra impresa sarà assai perdente» . Fu poi fissato a 3 centesimi e il prezzo del giornale a 40 centesimi.
Molto? Poco? Molto. Un operaio torinese guadagnava in media 1,25 lire al giorno, che fa poco meno di 34 lire al mese. Per mantenere una famiglia di quattro persone ci voleva come minimo una lira e ottanta. In pratica si trattava di un terzo del salario giornaliero di un operaio. Come se la Stampa costasse dieci-quindici euro.
Marketing? Ma niente. Sono marketing, alla fine, le decine di lettere che il conte mandò in giro per annunciare l’uscita del «Risorgimento». Nella testa di Cavour le caratteristiche del mercato erano chiare: la stragrande maggioranza è moderata, moderatissima. Anche quelli della «Concordia», alzando tutto quel polverone sul giornale austrogesuitico, fecero senza volere pubblicità al giornale del conte. Scrisse a Emilio: «Indirizzatevi soprattutto e unicamente alle persone d’opinione moderata. Dite loro a mezza voce che si tratta di combattere l’influenza di un giornale esagerato come "La Concordia"…». Mandò una lettera anche a Cobden, pregandolo di far trovare «Il Risorgimento» nei club inglesi. Una vera operazione di marketing, come la intendiamo noi, fu fatta da quelli dell’ «Opinione»: regalarono agli abbonati la «Tabacchiera nazionale» che aveva sul disco di sopra Pio IX, Carlo Alberto e Leopoldo II e su quello di sotto Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio.
Ma quanto vendevano? Sulle mille e cinquecento copie. La «Concordia» - che costava 25 centesimi - duemila. Sono cifre sconsolanti. Il «Times» in quel momento vendeva più di 30 mile copie al giorno, sarebbe arrivato a 50 mila nel 1850 e a 70 mila durante la guerra di Crimea. E come venivano distribuite queste copie? C’erano le edicole? Soprattutto per abbonamento. Con qualche problema. Massimo impazziva perché da Roma i principi Tommaso Corsini e Cosimo Conti e il signor Fortunato Pio Castellani s’erano - come si diceva allora - «associati» e il giornale non lo ricevevano. «Digli che se fanno così, faranno cattivi affari» . Cavour: «Scusateci considerando che siamo tutta gente nuova della bisogna che abbiamo forse temerariamente intrapresa». Mandarono Reta a vendere abbonamenti porta a porta. Non seguiva le istruzioni di Balbo e furono altre litigate. Il circuito di distribuzione politicamente più importante era però quello dei caffè.