MIRELLA SERRI, Tuttolibri - La Stampa 8/1/2011, pagina XI, 8 gennaio 2011
Intervista a Enrico Palandri: “Boccalone studente ribelle ieri come oggi” - Lei è anna (con la minuscola), giacca rossa e salopette bianca, riccioli morbidi e cosce sottili, tante amiche con cui parlotta sottovoce
Intervista a Enrico Palandri: “Boccalone studente ribelle ieri come oggi” - Lei è anna (con la minuscola), giacca rossa e salopette bianca, riccioli morbidi e cosce sottili, tante amiche con cui parlotta sottovoce. Lui è enrico (senza la maiuscola) sbandato dolce eroe della fine degli anni Settanta, dalla bocca larga e dal cuore grande che ride, piange e trabocca di emozioni. Non a caso è soprannominato Boccalone : un titolo e una storia, quella di una generazione. Perché Boccalone vuol dire «chiacchierone, ganzo, non-satener-segreti, affettuoso, citrullo»: così recitava il risvolto di copertina del primo romanzo di Enrico Palandri pubblicato nel 1979 da una minuscola casa editrice, L’erba voglio. Che proseguiva: «Dopo questo libro non si potrà più dire che i giovani non sanno scrivere». Parole profetiche: la bocca larga ebbe un’enorme affermazione, segnò un’epoca e un’epica, quella del movimento del ’77 e fu il testo-manifesto della rivolta giovanile, dei balli e delle feste di piazza Grande e del Dams (in quegli anni tra gli allievi vi erano Palandri, Andrea Pazienza, Pier Vittorio Tondelli e altri), di Radio Alice , delle riviste A/traverso eIl Male , degli scontri tra studenti e polizia. Oggi Palandri - trasferitosi a Sant’Elena, nel sestiere più verde di Venezia, dopo aver vissuto per vent’anni in Gran Bretagna, tre figli - con qualche filo grigio nei capelli, scrittore dalla copiosa produzione (di recente è uscito Fratelli minori , da Bompiani), «ritrova», a 31 anni di distanza, Boccalone (il 19 gennaio sempre dallo stesso editore). E riappare in singolare concomitanza con le cittadelle universitarie che di nuovo han respirato aria di lacrimogeni e con la protesta studentesca che si è fatta largo tra blindati e manganelli (ma nel ’77 vi furono i carri armati a presidiare la Sapienza di Roma). Una coincidenza? Esistono delle somiglianze tra i ragazzi di ieri e quelli di oggi che scendono in piazza? «Oggi gli studenti che fanno sentire la loro voce in tutte le capitali europee, a Londra, dove insegno, a Roma, Parigi o Atene, esprimono un identico stato d’animo e mi ricordano gli indiani metropolitani, testimonial dell’insofferenza degli anni Settanta: con la differenza che all’epoca si diceva che i ventenni cercavano lavoro ma che in realtà non lo volevano trovare considerandolo troppo alienante. Adesso invece l’occupazione non la cercano per niente, tanto sanno che faranno un buco nell’acqua. Il disagio rischia di essere ancor più esplosivo che in passato. Il mio libro, che parlava di politica ma anche di amore, voleva dare anche una testimonianza della solitudine in cui si trovavano i ragazzi. Una condizione che oggi si è accentuata». Lei giovane..., «Sono sempre stato piuttosto povero. Ho passato molto tempo con i grandi classici, Stevenson, Verne, Flaubert, Valéry, Kafka, Dostoevskij, Tolstoj, con i contemporanei, come Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Luigi Meneghello, e con tanta poesia di Philip Larkin, Eliot, Montale, Saba. A farmi compagnia quando ero un liceale c’era anche la musica: Bob Dylan, Luigi Tenco, Gino Paoli, Bruno Lauzi». La sua opera prima era affollata di citazioni da Majakovskij, Rimbaud, Eluard, Torquato Tasso. Fu accompagnata, però, da questa epigrafe: «A quelli che capiranno che questo non è un romanzo e che io non sono uno scrittore, che di stronzi è già pieno il mondo». E allora? Come la mettiamo con questi str…? «Nelle nuove edizioni quell’assurda dedica è scomparsa. Al Dams ero allievo di Gianni Celati, di Umberto Eco, di Alfredo Giuliani, sostenitori di una narrativa connotata da un piglio spontaneo e naïve . Rifuggivano anche da ogni romanticismo mentre io, anche se avevo solo 22 anni, mi sentivo sollecitato dalla frase di Leopardi “solo l’amore e la morte sono degne dell’essere umano” e volevo confrontarmi con le più profonde vicende esistenziali. Dopo l’esordio letterario diventai amico di Celati, dotato di un impareggiabile senso della comicità, Tondelli, Claudio Piersanti, Daniele Del Giudice di cui ammiravo la vena metafisica». I ragazzi degli anni Settanta riempivano così i loro vuoti, con musica e romanzi? «No, soprattutto con la politica che sembrava offrire quella socializzazione che tutti cercavano. Poi i partiti, in particolare quello comunista, non furono all’altezza delle attese giovanili. Mi viene in mente un’affermazione di Primo Levi: “La guerra c’è sempre”, gli attriti ci sono. Il conflitto sociale deve essere assimilato dalle istituzioni, dalla politica, altrimenti divampa». Lotte, occupazioni ma anche attentati, sangue furono la sinfonia degli anni di piombo. «Personalmente non mi sono mai confrontato con la violenza. Al massimo io e Piersanti siamo andati con un gruppo di compagni nel miglior ristorante di Bologna. Vestiti con giacca e cravatta fingevamo di essere giovani assistenti universitari che parlavano dei loro papers . Volevamo scappare via senza pagare il conto. Ci hanno però riconosciuti e ce la siamo vista brutta». Spinelli, sfiducia, futuro nebuloso: solo l’amore sembrò la ciambella di salvataggio per i ragazzi-naufraghi privi di certezze. E adesso? «Sono andato spesso a presentare Boccalone in questi decenni e ogni volta alla fine mi chiedono “ci facciamo una canna?”. Così mi vergogno di avere scritto questo libro». Veramente? «Per fugare le tante tristezze e insoddisfazioni c’erano la marijuana, le torte di erba, l’hashish: un modo di stare insieme, strafatti e ridanciani, a dire stupidaggini, sentirsi uniti e non più soli. Poi però si passa alle sostanze più impegnative, agli acidi e… insomma sei prigioniero». Come se n’è reso conto? «Quando uscì il libro, Massimo D’Alema, in un polemico intervento sull’ Espresso , mi bacchettò: “L’immagine del popolo dell’ Emilia e della politica è assolutamente ingiusta”. A lui ancora oggi piacciono i racconti che fanno una sociologia facile e banale come quelli che sforna Alberto Asor Rosa». E allora? «Non avevo sbagliato a dare quella raffigurazione assai poco encomiabile dei giovani “peccatori” bolognesi e della rossa roccaforte del piccì. Anche il successo che ottenni fu una controprova. Mi proposero di fare un film da Boccalone . A Roma gli intellettuali più in vista, da Goffredo Fofi a Elsa Morante, mi accolsero a braccia aperte. Elsa mi sedusse, letteralmente…». Con le sue opere? «Anche. Scoprii L’isola di Arturo , una folgorazione. Iniziai con lei un legame molto intenso. Le piaceva circondarsi soprattutto di amici gay alle cui inclinazioni sessuali sembrava voler omologare e incoraggiare anche noi etero. A distanza di anni la risposta a questo anomalo comportamento è, forse, che voleva essere l’ape regina, creando anche rotture e dissapori come le capitò con Dario Bellezza. Guai, poi, a presentarle un tuo partner: lo divorava. Quest’impressione me la confermò anche la poetessa Patrizia Cavalli. Erano comunque rapporti sempre un po’ sovraeccitati, sopra le righe. Di Elsa, non so se fosse vero, si diceva che per lavorare più intensamente si facesse aiutare dalle anfetamine piuttosto dannose per la sua salute. E poi c’era la faccenda delle droghe cosiddette leggere. Dopo i trionfi di Boccalone decisi di andare in America». Per un nuovo libro? «Passo un paio di settimane al tavolino a comporre con le “amiche” canne. Pensavo di aver buttato giù un capolavoro. Torno in Italia con le mie cento pagine, le rileggo e le sottopongo al giudizio di Elsa. Niente, non dicevano niente. Uno choc. Il vuoto più totale. Ho capito che se volevo diventare uno scrittore dovevo dare un taglio netto, con tutto». Cosa l’aiutò? «La letteratura, il desiderio di voler continuare a scrivere. Ho ricominciato da capo, mi sono trasferito a Londra, ho fatto molti lavori, ho conquistato nuove amicizie con scrittori come Ian McEwan. “Quando il nostro intelletto è umiliato ci riconciliamo con l’umanità”, diceva Giambattista Vico. Parole analoghe me le disse Fofi, sostenendo che se vuoi raccontare qualcosa o comunque crescere devi avere una vita faticosa. Ho cercato di costruirla e di uscire dal ghetto del troppo facile».