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 2011  gennaio 08 Sabato calendario

Ma il Risorgimento non diventò fascista - Dopo Nel nome dell’Italia , lo storico Alberto Maria Banti propone Sublime madre nostra

Ma il Risorgimento non diventò fascista - Dopo Nel nome dell’Italia , lo storico Alberto Maria Banti propone Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo , sempre facendo amplissimo ricorso a narrazioni, linguaggi, strutture discorsive, meccanismi comunicativi: un libro serio e documentato, e affascinante, come tutti i lavori dell’autore, anche se, a mio avviso, meno convincente di altri precedenti. Un libro che suscita molte perplessità. E ciò al di là del linguistic turn , la «svolta linguistica» del postmodernismo storiografico di cui Banti è uno degli esponenti italiani, e verso cui, personalmente, sono piuttosto critico. Ma non è questo il punto, e il libro comunque merita di esser letto e, soprattutto, di essere discusso, specie ove si consideri che esso si inserisce, anche al di là delle intenzioni dell’autore, nella diffusissima polemica antirisorgimentistica, che Banti declina nei termini di uno smontaggio delle narrazioni retoriche dell’epopea risorgimentale e di quelle successive, «nazional-patriottiche» (come le chiama) o addirittura - qui è il punto più dolente della posizione di Banti - nazionalfasciste. Secondo l’autore, infatti, il discorso nazionale rimane sostanzialmente il medesimo, nella sua conformazione, lungo i decenni, che vanno dal moto unitario al fascismo. E ciò perché, essenzialmente, la concezione della nazione rimane la stessa. Ci saranno cambiamenti, ammette Banti, ma si tratta più che altro di adattamenti ai diversi contesti politici, sociali, culturali; e anche se mutano, anche radicalmente, gli obiettivi politici perseguiti, la struttura del discorso nazionale non cambia. «E allora?», verrebbe da dire a uno storico «tradizionale», che pretende cocciutamente di ricostruire fatti e pensieri, attento, naturalmente, alle modalità espressive di quei pensieri, alle forme della comunicazione, ai linguaggi, ma che da questi elementi non intende lasciarsi trasportare, finendo per giudicare più importante il «come si dice» rispetto a «quel che si dice», per far prevalere il significante sul significato, per dirla in termini semiologici. Quanto al Risorgimento, in realtà nel libro rappresenta più che altro la materia della costruzione retorica che dai decenni anteriori all’Unità giunge al 1945. Sfilano, in un’ analisi sempre raffinata, autori che abbiamo tutti letto ingenuamente a scuola, spesso imparando a memoria, da Berchet a Manzoni, da Pascoli a De Amicis; è vero, i loro testi servivano anche a costruire una retorica nazionale, ma non è inevitabile nello sforzo di edificazione di un nuovo Stato? Anche la retorica, insomma, ha una funzione, che può essere positiva, in dati momenti storici. Poesie, racconti (grande posto ha naturalmente nel percorso il deamicisiano Cuore : ma siamo certi che sia tutto da sbeffeggiare? E che quei buoni sentimenti siano tutti oggi da rovesciare?), i monumenti (la «monumentomania» dell’Italia liberale, che produsse e piazzò statue degli eroi del Risorgimento un po’ dappertutto), le cerimonie, i discorsi pubblici, il primo cinematografo… Il discorso pubblico «nazionalpatriottico» usò una serie di figure, di elementi retorici, di argomenti reiterati, capaci di colpire l’immaginazione, dunque miti, che seppero costruire un senso comune in larga fetta della popolazione, anche quella meno adusa alla lettura, o a frequentare teatri o cinematografi. In realtà gran parte di quel discorso si svolgeva nelle pubbliche vie, nelle piazze, sia collocandovi monumenti, sia celebrando ricorrenze, sia attraverso cerimonie a carattere liturgico: era la liturgia della nazione, che reclamava i suoi martiri, i suoi santi (si pensi alla figura di Garibaldi, santo anomalo, ma da tutti riconosciuto e adorato), che onorava il sangue versato, i sacrifici patiti, il dolore, la sofferenza, tutti elementi capaci di essere il cemento dell’edificio nazionale. Abbiamo per decenni ancora nel secondo dopoguerra frequentato un martirologio nazionale, dove i santi erano tanto gli eroi di prima fila, a cominciare da Mazzini e Garibaldi (con annessa Anita, eroicizzata molto per tempo), quanto i letterati che avevano espiato con la dura esperienza della prigionia il loro «amore per l’Italia» (come si diceva), da Silvio Pellico a Luigi Settembrini; ma anche gli eroi per caso, gli eroi e martiri di secondo rango, tanto più degni di memoria: eppure, chi ricorda oggi un nome quale, per citarne soltanto uno, Amatore Sciesa, il mazziniano che non esitò a subire il patibolo per non tradire i suoi compagni e cui si attribuisce il fatidico «Tiremm innanz»? E l’oblio in cui sono caduti, siamo sicuri che sia un dato positivo? Insistere sugli elementi di sangue e suolo, ossia naturalistici, invece che spirituali, della concezione della nazione risorgimentale, e ritrovarla nel fascismo, passando per il tramite di un D’Annunzio (indimenticato autore di micidiali performance oratorie, dallo scoglio di Quarto nel 1915 alle piazze di Fiume nel 1919-20), pare operazione non del tutto condivisibile. Ritengo, al contrario di Banti, che esistano due nazionalismi piuttosto distinti e distanti, anche se temporalmente vicini: quello risorgimentale, che dai preludi post Rivoluzione francese va fino all’Italia liberale, e quello imperialistico, fra tardo Ottocento e Grande Guerra, che poi assumerà il volto più truce, e insieme grottesco, del mussolinismo. Il grande spartiacque fu la guerra del 1914, che per l’Italia fu «la guerra del ’15-18». Là si ebbe la scomparsa di quanto rimaneva del nazionalismo patriottico, e il sopravvento definitivo di quello aggressivo, imperialistico. Furono un gruppo di ideologi - pochi, ma attivissimi, che si chiamavano Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Francesco Coppola, e qualcun altro (e stupisce che nella ricca ricognizione di Banti siano trascurati) - a immettere nuovi contenuti nel bagaglio della nazione e a fare cambiare di segno il discorso nazionalistico, anche se le retoriche potevano essere, fino a un certo punto, le stesse o comunque analoghe. Il fatto che il fascismo si sia impadronito del Risorgimento, e si sia sovente presentato come il suo compimento e inveramento (tale l’opinione di Giovanni Gentile, ad esempio), non ci può indurre a gettar via il bambino con l’acqua sporca. Addirittura ritenere che le leggi razziali del ’38 siano nella loro essenza una ripresa di elementi presenti nella legislazione e nel discorso pubblico post-risorgimentale è operazione ad alto rischio. Il sangue e il suolo, specie il sangue, e quindi l’attenzione alla sessualità riproduttiva, sarebbero il filo conduttore. La nazione fascista, con il suo corredo razzista, «irrigidisce ed estremizza» gli elementi del discorso «nazional-patriottico» originario. Se così fosse, insomma, dovremmo giungere a chiederci: i padri della patria hanno gettato le basi della persecuzione antisemita? La mia risposta è: assolutamente, no. Così come alla domanda: il Risorgimento, e la sua celebrazione, hanno offerto la matrice fondamentale al fascismo per la sua costruzione ideologica e dunque per le sue pratiche efferate? La risposta è altrettanto vigorosamente: no. Insomma, mi dispiace per la storiografia postmoderna, e per il lavoro che compie, di raffinata lettura di testi. Ma, oltre a non raggiungere risultati persuasivi sul piano della conoscenza, essa finisce per avvicinarsi alle tante polemiche antirisorgimentistiche che pullulano tra editori e raduni. Lo smontaggio delle retoriche discorsive è operazione interessante, benché non sempre così utile. Quando poi finisce per coincidere con la costruzione di retoriche dell’antiretorica risulta ancora più discutibile. E, mi si lasci dire, in certo senso, altrettanto pericolosa, forse anche più, della retorica di Carlo Azeglio Ciampi (a cui Banti dedica le aspre pagine conclusive), che avrebbe lavorato per il ricupero del «blocco discorsivo proprio del nazionalismo classico, come si è formato tra Risorgimento e fascismo». Che Ciampi abbia esagerato con la retorica patriottica, pure con qualche svarione storico, è pacifico; ma essa non rinvia certo al duce, bensì a quei «ragazzi» del Risorgimento (e del «nuovo Risorgimento» che fu la Resistenza) ai quali, da cittadini prima che da studiosi, dobbiamo rispetto e riconoscenza.