Jacopo Arbarello, La Stampa 8/1/2011; D. Qu., La Stampa 8/1/2011; DOMENICO QUIRICO, La Stampa 8/1/2011, 8 gennaio 2011
TRE ARTICOLI SUL SUDAN DALLA STAMPA DELL’8/1/2011
Il Sud cristiano si gioca il futuro in sette giorni -
Il Sud Sudan è polveroso e pieno di problemi. Tra poco sarà uno Stato poverissimo ma ricco di petrolio. Per una settimana a partire da domani 4 milioni di cittadini voteranno per il referendum che sancirà l’indipendenza del Paese da Khartum. Per le strade sterrate di Juba, la capitale, ma ovunque nel Paese, non si parla d’altro che del referendum, di quanto è costato caro, milioni di morti e di sfollati in due guerre civili, e di quanto le cose andranno meglio una volta ottenuta l’indipendenza. Il quorum è al 60% ma ci si aspettano percentuali vicine al 100%. Per tutti, dai politici ai comuni cittadini, la separazione del Sud cristiano e animista dai musulmani del Nord sembra essere la panacea di tutti i mali. Talmente benefica da far dimenticare i problemi, che sono tanti.
A cominciare dal rischio di nuovi conflitti. «Non ci sarà una nuova guerra con il Nord, adesso per noi è il momento dello sviluppo, il Sud troverà la sua strada pacificamente», dice Kallo Musa Kunda, ex combattente che lavora nella sicurezza privata. Altro è il punto di vista delle organizzazioni internazionali che hanno già pronti piani precisi per assistere le vittime di scontri e tensioni al confine tra Nord e Sud, in particolare negli Stati di Abiey e Unity, quelli dove c’è il petrolio o la cui destinazione finale non è stata ancora decisa. Lì la violenza è data per probabile, anche se localizzata.
«Il momento peggiore non sarà durante i 7 giorni di voto, perché avremo gli occhi del mondo puntati addosso, ma durante il conteggio delle schede, che durerà quasi un mese», dice un militante dell’Splm, il movimento di liberazione diventato partito di governo, durante uno dei comizi conclusivi della campagna elettorale. Qui tutte le canzoni della manifestazione sono canti di liberazione o inni ai benefici del referendum.
Siamo a Yambio, minuscola capitale del Western Equatoria, al confine con il Congo. Un altro mondo rispetto a Juba e al Nord. Il politico atteso è Pagan Amun, segretario generale dell’Splm: è una personalità, erano settimane che si attendeva la sua visita. Arriva infatti con 4 ore di ritardo, preceduto da decine di fuoristrada e in compagnia di almeno una trentina di soldati armati di Kalashnikov che lo proteggono a ogni mossa. Quando parla spiega anche al pubblico come si vota: pollice nell’inchiostro e via all’indipendenza. I seggi sono spesso sotto agli alberi di mango: qui i politici locali radunano la popolazione per le ultime spiegazioni.
«Stiamo facendo la storia, stiamo cambiando la mappa del Sudan, dell’Africa, del mondo». A parlare è un uomo istruito, Wilson Aganwa, che lavora per un’ong sudanese. «Il referendum è una grande opportunità, lo volevamo da 55 anni, ce lo siamo guadagnato con il sangue».
Il Sud Sudan parte però dal fondo. Ha una delle popolazioni più povere del mondo: oltre il 60% vive al di sotto della soglia di povertà. Questo pur essendo una terra ricca di petrolio, di uranio, di gomma arabica (quella della Coca-Cola) e di acqua, quella del Nilo. Di questo ha parlato proprio Pagan Amun, segretario dell’Splm e ministro della Pace del governo di Khartum: «La grande sfida è costruire una nazione partendo così dal basso, dopo essere stati schiavizzati, colonizzati, marginalizzati. Dopo che il Nord ci ha negato tutte le possibilità di sviluppo. Noi ci stiamo provando».
La vulgata che gira per le strade e nei mercati è questa: è tutta colpa dei nemici del Nord. «Il Sud manca di tutto, di strade di ospedali, di case, di scuole: il governo di Khartum non ce li voleva costruire anche se il petrolio è a Sud e non a Nord» accusa ancora Light Wilson Aganwa. Gli fa eco il ministro degli Affari legali, John Luk, rispondendo alla domanda sulla mancata redistribuzione dei redditi del petrolio in questi ultimi 5 anni in cui il governo del Sud ha ricevuto il 50% dei proventi: «Khartum ci escludeva dalla vendita del petrolio e ci arrivavano meno soldi. Adesso che la gestiremo noi la gente vedrà i risultati». Diversa la visione delle migliaia di operatori umanitari con base a Juba e nelle province del Paese. Osservatori che vedono i problemi e parlano di «un governo locale già gravemente intaccato dalla corruzione, fatto di ex combattenti che una volta deposte le armi non riescono a gestire la macchina di uno Stato. E dell’assenza di una giovane classe dirigente in grado di rimpiazzarli».
C’è poi il problema dei profughi di ritorno. La seconda guerra civile sudanese ha provocato 4 milioni di rifugiati e sfollati, per la maggior parte scappati a Nord dove la maggioranza vive ancora in enormi campi alle porte di Khartum, spesso discriminata per la religione cristiana in un Paese in cui vige la sharia. Molti sono tornati dopo la pace nel 2005 ma moltissimi stanno tornando adesso. Giovanni Bosco, Capo dell’ufficio dell’Onu che coordina gli aiuti umanitari, parla di numeri altissimi: «Sono già arrivate 140 mila persone ma ne potrebbero tornare 800 mila, e tornano per restare perché hanno paura di come possono andare le cose al Nord dopo la secessione. Non sanno dove andare perché le terre che hanno abbandonato durante la guerra sono occupate». Il ritmo è di 2000 al giorno: arrivano in aereo, con le chiatte sul Nilo e in estenuanti viaggi in autobus. Tranne che a Juba, il Sud Sudan non ha strade asfaltate, solo piste di terra rossa: viste dall’alto di un aereo sembrano le lunghe vene di una terra arida e marrone su cui crescono soprattutto cespugli. A percorrerle in macchina è tutta un’altra storia, e si rimpiange l’asfalto. Il Sud Sudan è un luogo polveroso e difficile. La cosa migliore è sperare in giorni migliori e questo è il momento giusto per farlo.
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Lugan: «Un terremoto che travolgerà i confini del vecchio colonialismo» DI DOMENICO QUIRICO -
Bernard Lugan autore di una fortunata «Storia del Sud Africa» (Garzanti) è uno dei più noti africanisti francesi, al centro di vivaci polemiche sul postcolonialismo
È una data storica, per la prima volta, le frontiere delle nazioni africane post-coloniali stanno per cambiare.
«Certo c’è il precedente dell’Eritrea, ma lì le ragioni storiche erano diverse. Nel caso del Sud Sudan, si tratta veramente di una rimessa in discussione delle frontiere ereditate della colonizzazione. Ovviamente, quello che sta succedendo avrà degli effetti sugli altri Paesi africani ed è esattamente contro questa prospettiva che Idriss Déby, presidente del Ciad, si è risolutamente opposto all’indipendenza del Sud-Sudan. Tutti i Paesi del Sahel quasi fino al Senegal incontrano problemi con il loro Sud. Ad esempio nel Ciad il Sud è popolato da neri come nel Sud Sudan, mentre nel Nord ci sono gli arabi berberi. Situazione identica in Nigeria, in Camerun, e così via. Senza dimenticare tutti movimenti separatisti che sono stati finora soffocati, come quello di Kabinda in Angola. E perché non dovrebbe riaffacciarsi di nuovo la separazione del Katanga, nella parte orientale e ricca del Congo? Quindi è davvero un evento molto importante, che va a rimettere in prospettiva una storia ereditata dagli Anni 60 col principio dell’intangibilità delle frontiere» .
All’origine di tutto c’è la differenza di religioni, musulmani al Nord e cristianianimisti nel Sud, ma c’è anche il petrolio…
«Il lato religioso è importante, certo, ma abbastanza recente. Come il petrolio. Infatti si tratta di un problema razziale. Da duemila anni, e anche di più perché già l’Egitto faraonico veniva a cercare degli schiavi in Nubia per trasformarli in abili guerrieri e arcieri, esiste una spinta tradizionale lungo la valle del Nilo in direzione di questo bacino dell’alto Nilo. Il petrolio è un’aggravante ma non ha innescato la guerra nel Sud-Sudan. Quella è scoppiata nel 1955 mentre il petrolio è stato scoperto soltanto dieci anni fa. Per Karthoum è grave che i due terzi delle riserve si trovino nel Sud che potrebbe diventare indipendente. Ma il Sud a sua volta non ha i mezzi tecnici di esportare il petrolio, perché l’oleodotto esistente porta alla città di Port Sudan sul Mare Rosso. Poi c’è un altro problema di cui si parla meno ma che non è da meno, quello dell’acqua. Perché il Sud Sudan è la porta d’entrata del Nilo azzuro che arriva dall’ Etiopia. Un Sud Sudan indipendente avrebbe tendenza a negoziare accordi con l’Etiopia, per cominciare a liberarsi dell’influenza del Nord. L’Etiopia nutre grandi progetti, come lo sbarramento all’uscita del lago Tana, alle sorgenti di questo ramo del Nilo. E per Karthum, come per l’Egitto, questi progetti sono inaccettabili. Come la nascita di un nuovo Stato che, guardando naturalmente all’Etiopia, creerà problemi geopolitici assolutamente determinanti».
Il Sud Sudan non ha infrastrutture, ma dovrà vivere di aiuto internazionale. Quale sarà il suo futuro?
«C’è nulla di peggio che la mancanza di un’organizzazione, porta in grembo le tensioni etniche. I Dinka sono in maggioranza e quindi, secondo le regole democratiche, dovrebbero prendere la guida di un futuro Stato; ma i Nuer non lo potranno mai accettare. Ci sono già combattimenti tra queste tribù. Quanto ai Nuba che vivono nella parte Nord, ci sarà un altro referendum perché decidano a quale Stato vogliono essere legati. I veri problemi si vedranno più avanti».
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Un piccolo Paese fragile con più petrolio che acqua DI DOMENICO QUIRICO -
Lo diventerà, una capitale, questa Juba di argilla, senza luce elettrica, senza condutture per l’acqua, senza fogne né strade, dove persino i pomodori sono importati e i prezzi già pari a quelli di Parigi, con l’università fatta di bungalow; e l’unico edificio nuovo di zecca è, brutto segno, quello del futuro Presidente. Gli uomini d’affari occidentali, che non hanno bisogno di attendere proclamazioni ufficiali, che sanno tutto, fanno già la fila: per dividersi il petrolio. I nordisti lo vendevano ai cinesi. Ora tutto torna in gioco. Che è quello che in fondo conta davvero: come sempre come ovunque. E poi volete fermare l’ebbrezza di gente che è stata fiaccata da vent’anni di guerra, stanchezza e dolore e si spazientiva dal desiderio di sillabare la magica parola: indipendenti, liberi? Chi ha il coraggio di chieder loro di restituire il biglietto d’ingresso per il paradiso del futuro?
È vero. Il referendum che inizia domani è laborioso, durerà una settimana o più. I votanti non sono molti, quattro milioni, ma questa è una democrazia ancora senza strade asfaltate e ci vorrà tempo. Le voci che il Nord abbia distribuito false carte elettorali o che tenterà di impedire di raggiungere il quorum fissato dagli accordi di pace del 2005 sono appunto voci. L’unico vero pericolo in fondo è che l’inchiostro con cui gli elettori imprimeranno il loro indice sul certificato non possa tenere per sette giorni ed evapori. Sì, il cinquantaduesimo Stato africano è pronto. Bisognerà sotterrare un pezzo di Storia, quello che ha fissato l’intangibilità delle frontiere africane del colonialismo. Fu, fra tante grullerie e foscaggini delle élites dell’indipendenza, una buona idea: ha evitato per mezzo secolo la balcanizzazione delle tribù.
Ci fu, certo, un precedente al Sud Sudan, l’Eritrea; ma si saldavano i conti, in fondo, di un colonialismo «africano», quello etiopico. Adesso dal Delta del Niger al Kivu, da Cabinda al Tibesti, il vaso si può scoperchiare: c’è un precedente.
L’America, grande regista di questa nascita di una nazione (in fondo una apprezzata specialità del «suo destino manifesto») non si è fatta spaventare da una rischiosa autodeterminazione affidata a elettori che escono dall’età della pietra, vivono in capanne di fango essiccato, nella maggior parte non si sono mai seduti su un banco di scuola, non sono mai saliti su un auto, non hanno mai schiacciato un interruttore. Della modernità conoscono solo quella mortifera del Kalashnikov. Non è già ora il Sud Sudan il terzo beneficiario dell’aiuto americano dopo l’Afghanistan e il Pakistan? A Juba hanno eletto la prima regina di bellezza del nuovo Paese, graziosa assai, piccante. È Storia anche questa. Madrina la vedova di John Garang, il padre della patria che però sognava un Sudan laico e unito. Un guaio che non sia più qui, è morto in un misterioso incidente di elicottero; qualcuno sussurra provocato dai suoi compagni di lotta che appunto lo trovavano un po’ troppo «unitario».
Non sarà difficile inserire nelle classifiche mondiali il nuovo Stato. È imbisacciato all’ultimo posto, in tutto: povertà (il 90 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno) e mortalità infantile, la più elevata del pianeta. La metà dei funzionari che dovranno amministrarlo non sono mai andati a scuola. La comunità internazionale fornisce oggi l’85 per cento dei servizi di educazione e di sanità. Bisognerà continuare a pagare, per anni. Per non avere rimorsi di questa fretta, per non deprecare l’abbaglio.
In compenso il Paese deve ancora nascere e ci sono già trecentomila funzionari. Il clientelismo non è mai in ritardo. E la corruzione, anche quella, non ha atteso le cadenze dell’Onu. Raccontano che quando Salva Kiir, il futuro Capo di Stato, barbuto e rodato guerrigliero, a settembre è stato ricevuto alla Casa Bianca con in testa il cappello texano che gli aveva regalato Bush (se lo toglie solo quando va in chiesa, la domenica), Obama gli ha presentato una lista con i nomi dei membri del suo governo; e accanto i depositi nelle banche di tutto il mondo. Dietro la retorica dell’indipendenza si intravede la spelonca dei soliti predoni.
Il petrolio pagherà tutto, anche se le riserve sono solo di quindici anni (e l’unico oleodotto per trasportarlo, ahimè!, punta verso il Nord). A Washington fanno finta di non sapere che nel Sud ci sono almeno un centinaio di etnie e altrettanti conflitti fratricidi, non meno feroci di quelli con i nordisti musulmani. Contadini contro allevatori, sedentari contro nomadi: si scanneranno per un pezzo di terra, un lembo di pascolo o una fonte d’acqua. E poi i dinka a Juba hanno il controllo di tutto, a cominciare dal Parlamento. Non passerà molto tempo prima che le altre tribù inizino a mormorare, come facevano contro l’ingordigia di quelli del Nord, rapaci e malefiziosi.
Il Nord appunto: Al Bashir, consumato tiranno amico di Carlos e di Bin Laden, dicono si è rassegnato. L’operazione gli rende: incasserà il certificato di buona condotta rilasciato da Obama. che girerà al tribunale internazionale. Che sciocchi: lo accusano di genocidio nel Darfour. Per fare i conti con i sudisti c’è tempo. La maggior quantità di petrolio è nella regione di Abyei. La benevolenza di Allah l’ha sistemata proprio a cavallo di quello che dovrebbe essere il futuro confine. Non sarà difficile fomentare le passioni indipendentiste di questi fortunati nei confronti di Juba. Chi di secessione colpisce di secessione può anche morire.