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 2011  gennaio 07 Venerdì calendario

Il conte che parlava da romano «di Turìn» - Dal torpore che a mio avviso contraddi­stingue le celebra­zioni nazionali per il centocinquantesi­mo anniversario del­l’Unità emergon­o lodevoli iniziati­ve locali o di singole istituzioni cul­turali

Il conte che parlava da romano «di Turìn» - Dal torpore che a mio avviso contraddi­stingue le celebra­zioni nazionali per il centocinquantesi­mo anniversario del­l’Unità emergon­o lodevoli iniziati­ve locali o di singole istituzioni cul­turali. Tra queste ultime mi sem­bra degna di segnalazione la pub­blicazione degli scritti di Cavour per iniziativa di Libro Aperto , rivi­sta liberale fondata da Giovanni Malagodi. Di Cavour, protagonista assolu­to del Risorgimento, ricorrono i due secoli dalla nascita e il secolo e mezzo dalla morte che coincise con la realizzazione del suo straor­dinario disegno politico. In prece­denza Libro Aperto aveva dato alle stampe I verbali dei governi Ca­vour e, in altro volume, gli Scritti economici . Adesso arriva questo Scritti e discorsi politici curato da Pierluigi Barrotta, Marco Bertonci­ni e Aldo G. Ricci. Anche se la veste è modesta e la scelta dei testi ridot­ta, il volume ha grande interesse. È vero che di Cavour si sa già molto, quasi tutto. Altrettanto vero è che, nell’infuriare delle polemiche sui suoi progetti e sulla loro realizza­zione, riesce utile ribadire, docu­menti alla mano, quanto quel su­balpino sia stato italiano e euro­peo. Un realista aperto e intelligen­te che tuttavia respingeva «la peri­colosa o funesta soluzione del vo­to universale». Un pragmatico che peraltro subì il fascino delle attese e delle illusioni di tanti, lui compre­so, alla vigilia della prima guerra d’indipendenza, quando si inneg­giava al Papa progressista. «A dar valido fondamento a queste no­stre speranze - scriveva il 4 febbraio 1848 il trentotten­ne Cavour- più d’ogni al­tra cosa contribuisce la illuminata fiducia che abbiamo [...] nei no­stri principi. L’Italia confida in essi. Ro­ma, Firenze e Torino sono certe che Pio (IX), Leopoldo e Car­­lo Alberto, magnani­mi iniziatori del Ri­sorgimento italia­no, sapranno condurre a compi­mento la gloriosa ed impareggiabi­le loro impresa, fondando su fer­me e profonde basi il più splendi­do edificio dei tempi moderni. La libertà italiana». Forse troppa ingenua enfasi pa­triottica, in queste frasi, ma non certo la gelida allergia ai massimi ideali che i detrattori vogliono im­putare al conte. Rimproverando­gli anche d’essere sovente stato, come «tessitore», bugiardo. Quasi che la dissimulazione non sia, in chi giuoca sugli scacchieri nazio­nali e internazionali, una indispen­sabile dote. Leggete con quale fie­rezza lo stesso trentottenne esor­diente della scena pubblica riven­dicava la sua qualifica di modera­to: «Gli uomini delle misure energi­che, gli uomini davanti ai quali noi non siamo che miserabili modera­­ti, non son già nuovi nel mondo. Ogni epoca di rivolgimento ha avu­to i suoi. E la storia c’insegna che non furono mai buoni se non ora ad accozzare un romanzo, ora a ro­vinare le cause più gravi del­l’umanità ». Ponendo sul tappeto in un discorso alla Camera, quan­do già era a capo del neona­to regno d’Italia, il tema fondamentale dei rap­porti tra lo Stato e la Chiesa, Cavour non ebbe ambiguità: «Ove si potesse concepire ­disse-l’Italia costitui­ta in unità in modo stabile senza che Ro­ma fosse la sua capi­tale io dichiaro schiettamente che reputerei diffi­cile, forse impossi­bile, la soluzione della questione romana. Per­ché noi abbia­mo il diritto, anzi il dovere, di chiede­re, d’insistere per­ché Roma sia riuni­ta all’Italia. Perché, senza Roma capita­le d’Italia, l’Italia non si può costitui­re ». Il sabaudo fran­cesizzante che a Ro­ma non mise mai pie­de ne sentiva tuttavia l’indispensabilità. Disse chiaro e tondo che Roma in quelle circo­stanze si poteva averla solo con il consenso dei francesi, ma affer­mò risoluto che la sua Torino dove­va rinunciare al rango di capitale. Si permise- era un eccellente argo­mentatore parlamentare - qual­che guizzo d’ironia: «Per quanto personalmente mi concerne gli è con dolore che vado a Roma. Aven­do io indole poco artistica ( si ride ) sono persuaso che in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma an­tica e Roma moderna, io rimpian­gerò le severe e poco poetiche vie della mia terra natale». Fu sferzante contro lo Stato del­la Chiesa: «Non possono essere i seguaci di Colui che sacrificò la vita per salvare l’umanità quelli che vogliono sacrificare un inte­ro popolo, che vogliono con­dannarlo ad un continuo martirio, per mantene­re il potere tempora­le dei suoi rappre­sentanti su questa terra». Alla fine una vera e propria sfida a Pio IX. Se questi avesse perseverato ne­gli anatemi e nel­le scomuniche «la gran maggio­ranza della so­cietà cattolica assolverà gli italiani e farà cadere su co­loro a cui spet­ta la respon­sabilità delle conseguenze della lotta fata­le che il pontefi­ce volesse impe­gnare contro la na­zione in mezzo alla quale esso risiede». Fu l’ultimo solen­ne atto pubbli­co del genio che ha fatto l’Italia.