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 2011  gennaio 06 Giovedì calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 61 - IL REDATTORE SI LAMENTA


Non c’erano i servizi come adesso? Voglio dire: gli Interni, gli Esteri, la Cultura…?
Nella richiesta di autorizzazione a pubblicare, inviata al ministro dell’Interno Des Ambrois, si specificava «che le materie da trattarsi saranno, oltre le politiche ed economiche politiche, accidentalmente pure le scientifiche e letterarie». Quindi, in base alla nostra logica, ci sarebbero voluti almeno i servizi di Interni, Esteri, Economia, Cultura. In realtà all’inizio i dipendenti erano sei o sette, e arriveranno poi fino a una quindicina, compresi i tipografi. Troppo pochi per queste suddivisioni, che vogliono molto personale. Un abbozzo di struttura redazionale si intravede in una lettera di fine novembre: Balbo agli Interni, Cavour agli Esteri, Santa Rosa, Galvagno, Cassinis, Bon Compagni questioni generali e «pel rimanente vedremo». Ma è teoria, sono suddivisioni che salteranno in poche settimane.

Come funzionava, però? Adesso i giornali sono fatti da un gruppo che scrive e da un gruppo, come si dice, «di macchina»: ideazione, titolazione, creazione delle pagine con i redattori-grafici… L’orario di chiusura?
Non si può rispondere, non abbiamo notizie così precise. L’impressione è che il giornale uscisse nella tarda mattinata o forse nel primo pomeriggio. La grafica era semplicissima: quattro pagine, grandi poco meno della «Stampa» di adesso, impianto su quattro colonne, articoli a seguire, uno sotto l’altro. In pratica non c’erano titoli: si supponeva che le quattro pagine sarebbero state lette dalla prima all’ultima riga. La grafica non esisteva e, nonostante questo, trovo che quei giornali senza immagini - così poveri, così essenziali - fossero elegantissimi. Avevano importanza i testi. Cavour mi pare un direttore/redattore-capo onnipresente, come al solito. Le lettere di questo periodo riguardano in gran parte solo il giornale. «Insista su questo punto e lo faccia un po’ vibratello Confido in Lei, non lunghe ma vibrate parole» (a Castelli). «Ora avrei bisogno, o per meglio dire necessità, che anche voi mi foste cortese di alcuni articoli. Se prendeste a chiarire il nuovo ordinamento municipale, opera tutta vostra, fareste cosa utilissima al pubblico ed al giornale» (a Giovanetti). «Avressimo vivo desiderio di far conoscere al pubblico la stupenda risposta ch’ella fece alla poco cortese lettera del conte Borelli» (a Roberto d’Azeglio, che rispose di no, i due si stavano sulle scatole). «Je suis desolé que vous ayez renoncé à l’idée si aimable de nous envoyer des articles scientifiques» (ad Augusto De La Rive). «Avrete letto il Messaggiere di sabbato. Gli assalti di Brofferio vogliono esser respinti, spero che lo farete come se lo merita» (a Giovanetti), eccetera. Viveva gli stessi affanni dei direttori, dei redattori-capo, dei capiservizio di adesso. Chi voleva la recensione («Mi affretto di ringraziarla del grazioso dono che ella mi annunzia della prima dispensa dell’opera sarà mia premura di farne cenno nel giornale che dirigo», a Nicomede Bianchi), chi presentava pezzi non richiesti («Le mando un breve articolo che desidererei vivamente di veder inserito al più presto nel giornale», il povero Pier Carlo Boggio, che morì poi a Lissa, pezzo respinto), chi voleva la rettifica (Massimo: «Il corrispondente vostro è stato un malevolo l’articolo del Risorgimento ha fatto cattivo effetto a Ferrara»), c’era da sistemare il fidanzato della nipote, un cretino, e bisognò «arruolarlo tra gli scrittori di cose politiche», fino alla nota patetica dello stesso Cavour, «un journaliste a droit à l’indulgence de ses collaborateurs». C’erano anche allora le mene, le lagne, le gelosie, quel grumo di infelicità da redazione, quella sensazione dolorosa, tanto diffusa tra di noi, di non essere utilizzati per quello che crediamo di valere. Reta si risentì che come vicedirettore gli si fosse preferito Castelli e si beccò la reprimenda del conte sulle «suscettibilità del suo carattere», «s’ella considerava il posto di segretario-redattore come non al livello della sua capacità, perché accettarlo?». Il poveretto rispose con una lettera che io credo la capostipite di questo particolare ed eterno genere letterario, «quel posto che i miei studi, la mia buona volontà mi parevano dovermi meritare… i dolori volgari passano spesso invisibili per chi è altamente collocato nella scala della gerarchia sociale… soffrire e tacere, tacere e soffrire… io, offeso ogni giorno, predicava le lodi di tutti… io mi accomodava a tutto, piegava il capo a tutto… io merito dal giornale molto più di lei… vedendomi adunque tenuto in niun conto… direi qualche cosa dell’avvocato Castelli che mi trovo a sopracapo, ma ci sarebbe da oltrepassare i segni della pazienza della S.V.I...».Ci furono anche contrasti politici, Reta era un democratico che poi finì condannato a morte in contumacia.