Lorenzo De Col, il Fatto Quotidiano 7/1/2011, 7 gennaio 2011
SUDAN, SECESSIONE O VENDETTA: LA PAURA DEI CRISTIANI – I“PALAZZI”
del governo di transizione del Sud Sudan sono emblematici del Paese che rappresentano: dei prefabbricati di plastica e metallo che assomigliano a grossi container, all’interno di un grande compound che ospita tutti i ministeri. Venti passi da una parte ed ecco il ministero dell’Informazione, quaranta dall’altra ed ecco quello dell’Interno. All’interno degli uffici, aria condizionata a manetta dai capi di gabinetto in su, caldo soffocante per i semplici impiegati. Viceversa, il mobilio è vecchio stile, legno pregiato e verniciato, stile “anni Trenta” europeo. E su tutte, ma proprio tutte le scrivanie, delle ingombranti targhe col nome del funzionario/uomo politico e due bandierine incrociate col vessillo Sud sudanese (che è un po’ diverso da quello del Nord, sia nei colori che per la presenza di una stella). In qualche ufficio , ma sempre del livello alto, anche grandi televisioni. Accese anche al mattino. Le voci critiche dicono che uno dei problemi del futuro Stato, se dovesse nascere, sarà la sua classe dirigente, impreparata alla guida di un Paese da costruire da zero. Se si dovesse giudicare dalle sedi governative e dall’arredamento, potrebbero avere ragione.
I container ministeriali sono in fibrillazione, in questi giorni. Il 9 gennaio si vota. È il giorno storico in cui si aprono i seggi per decidere con referendum se il Sud Sudan farà la secessione dal Nord oppure no. Il governo – GoSs (Governo del Sud Sudan) – è al potere dal 2005, quando la firma dell’accordo di pace sancì grande autonomia politica al Sud e propri organi esecutivi e amministrativi, sia centrali che locali. Ha sede a Juba, fino a pochi anni fa una cittadina senza pretese di 150 mila abitanti lievitati ora (secondo le stime) a mezzo milione e con non più di 20 chilometri di strade asfaltate. A parte i suddetti 20 chilometri, nel resto della città le automobili fanno la consueta danza degli sterrati africani, nell’evitare le buche più grosse e nel sobbalzare fra quelle più piccole. Juba potrebbe diventare la capitale del 54° Stato africano, nonché 193° Paese Onu. Se al referendum del 9 gennaio vinceranno i “sì” alla secessione, naturalmente. Tuttavia, capitale si sente già: la sua popolazione continua a crescere, si costruisce dappertutto, fioriscono le baracche nelle periferie. Un appartamento in affitto non si trova per meno di 3.500-4.000 dollari e gli alberghi del centro, che non sono certo degli Hilton, costano un occhio, non meno di 150-200 dollari a notte.
I POCHI MUSULMANI
VENGONO DAL NORD
Questo a Juba, che rispetto al resto del Paese è comunque una signora metropoli. Fuori, in tutto il Sud Sudan, le strade sono soltanto piste di terra battuta, le infrastrutture non esistono, ospedali e scuole sono un privilegio raro. Tanto per fare un esempio, in tutto il suo territorio c’è un solo apparecchio per i raggi X, a Juba. Se ti fratturi altrove e se riesci a raggiungere uno dei pochi ospedali esistenti, il medico dovrà cercare di diagnosticare “a occhio” se c’è o meno una frattura scomposta o qualche altro problema. Quando comincia la stagione delle piogge ogni spostamento è un’avventura: se sulla pista si impantana un camion, può accadere di rimanere fermi una settimana. Quello che funziona è la telefonia cellulare, se non proprio nella savana, in quasi tutte le cittadine. Come avviene ormai in tutta l’Africa, telefonino e televisione satellitare stanno arrivando ovunque. Di tv, magari, ce n’è una in tutto il villaggio e la gente vi si raduna attorno, come avveniva da noi negli anni Cinquanta. Ma c’è, e ravvicina a una velocità impressionante il pastore seminomade sudanese ai fatti di casa nostra, ai Mondiali di calcio o alle notizie sulla guerra in Afghanistan.
Questa è la terra dei Dinka e dei Nuer, le due più nutrite etnie del Sudan meridionale. In realtà ci sono poi decine di gruppi etnici minori e si parlano 400 fra lingue e dialetti locali. Ma tant’è, vale per tutta l’Africa: anche il Sudan è stato disegnato dai colonialisti con squadra e compasso. In questo caso mettendo insieme, sotto il dominio inglese, le popolazioni sahariane e di origine araba del settentrione con quelle nere africane del Sud. Qui di Islam non hanno mai nemmeno voluto sentir parlare. Per questo hanno combattuto due guerre. I musulmani sono pochissimi e provengono in gran parte dal Nord. Il pezzetto di Sud Sudan che percorriamo noi è quello fra Juba e Rumbek, le due città principali. Un tratto di territorio in gran parte abitato dai dinka.“Siamo seminomadi e viviamo da sempre in simbiosi con le mandrie di vacche”, racconta l’autista John, mentre pigia sul clacson e fa slalom fra le centinaia di bianche mucche dalle grandi corna (quando possono, anche i pastori preferiscono la strada alla savana, nei continui spostamenti in cerca di pascoli e il bestiame è così tanto che il tempo di percorrenza da una città all’altra dipende dal numero di mandrie incontrate). “La dote alla famiglia delle future mogli la paghiamo in vacche – continua – E il prestigio sociale dipende dal numero di capi posseduti. Persino i nostri nomi hanno a che fare col bestiame: accanto a quello occidentale tutti i dinka hann oaltri due nomi, uno dei quali è quello di un tipo di toro o mucca”. Anche John ha fatto il mandriano, fin da bambino. E ha vissuto in quelli che qui chiamano “cattle camp”, ossia i campi di sosta provvisori dove uomini, donne, bambini e bestiame dormono assieme, con la sola differenza che le famiglie stanno sotto un telo tenuto su da quattro pali. Sia col sole che durante le piogge torrenziali che investono periodicamente il Sud Sudan. Nomadi o no,in questi giorni anche i dinka devono tornare al luogo dove si sono registrati per il voto. Ormai, al referendum ci siamo. Domenica 9 gennaio i 3 milioni e 270 mila che hanno preso il certificato elettorale (su un totale stimato – non ci sono però censimenti recenti a stabilirlo – di 9 milioni di sudsudanesi) si recheranno ai seggi,in cui è prevista la presenza degli osservatori internazionali, nel medesimo luogo dove si sono registrati, per dire il loro “sì” o il loro “no” alla secessione dal Nord e dal governo di Khartoum.
Nel mezzo di un crocevia di Juba c’è un enorme cubo con il countdown elettronico dei giorni rimanenti allo storico evento. Sotto i led luminosi c’è disegnata una grande mappa del Sudan meridionale con sopra due pugni che spezzano una catena. “La gente non ne vuole sapere del governo di Khartoum, aspettano questo momento da più di mezzo secolo, ossia fin dall’indipendenza”, spiega José Vieira, comboniano e giornalista del network delle sette radio cattoliche del Sud. “Il Sudan meridionale, africano e non musulmano, ha sempre vissuto l’unione col Nord, arabo e islamico, come una dominazione e uno sfruttamento selvaggio che ha portato via le sue ricchezze lasciando queste regioni nell’arretratezza più completa”. Raccogliendo metà della popolazione (i cristiani sono circa il 50 per cento), le chiese cristiane – prima fra tutte la cattolica – sono sempre state in prima linea nel denunciare l’oppressione perpetrata dal Nord verso le popolazioni africane meridionali. Tanto che il governo di Khartoum le considera le maggiori “istigatrici” alla secessione.
IL RISULTATO
SARÀ RISPETTATO?
Oggi, però, alla vigilia del voto i timori sono tanti, al punto che vescovi, preti e missionari non si esprimono pubblicamente a favore del voto separatista. La preoccupazione è tale che non lo fanno neppure i leader politici e i governatori, che pure provengono tutti dalle file dell’Esercito di liberazione del Sud, il movimento politico e militare che si è battuto da sempre per la secessione. Monsignor Cesare Mazzolari vescovo di Rumbek e missionario da quasi 30 anni in Sudan, sottolinea che la Chiesa cattolica chiede soltanto ai leader politici “che il voto avvenga nella pace, e che sia rispettata la scelta che uscirà dalle urne”. I vescovi si sono riuniti per due volte in pochi mesi per via del referendum. I documenti che hanno reso pubblici hanno toni quanto mai concilianti: “Il voto potrà dividere due territori, non due popoli”, sottolinea ad esempio l’ultimo testo, della metà di novembre. Invitano la comunità internazionale a sorvegliare sullo svolgimento pacifico e trasparente del voto, ma nel contempo chiedono che sia pronta ad affrontare un’eventuale emergenza: l’esodo di massa della gente del Sud che vive al Nord. L’altra grande preoccupazione è di una possibile “resa dei conti”, tanto al Nord quanto al Sud: i cristiani, finora tollerati a fatica nelle regioni islamiche, saranno rispettati? E gli arabi presenti nel Sud, in caso di vittoria del “sì”, saranno liberi di rimanere?
Il guaio è che, secondo logica, sono tanti i motivi che rendono inaccettabile per il governo centrale di Khartoum la divisione in due dell’immenso Paese africano. Lo si evince facilmente da quanto dice il direttore generale della sanità dello Stato dei Laghi, Acut Acut Madhiot: “La gran parte dei pozzi petroliferi più ricchi ricade nel territorio del Sud Sudan. Le regioni meridionali sono le più fertili, c’è abbondanza d’acqua, tanto bestiame e buoni prodotti agricoli. Siamo ricchi di legname prezioso e anche di molte miniere di materie prime importanti”. Perché, allora, il Nord dovrebbe accettare la secessione? “Perché è stato stabilito dagli accordi di pace di cinque anni fa”, rispondono tutti. Forse sarà così. Ma in realtà, possono essere ben altri i motivi per evitare una nuova guerra: quella che si è conclusa nel 2005 è stata tragica per il Paese, e nessuna delle due parti vuole ritrovarsi dentro un conflitto che si prospetterebbe ancora più sanguinoso, dato che in questi cinque anni di pace l’esercito del Sud non ha lesinato nell’acquisto di armamenti e oggi possiede anche un’aviazione in grado di colpire fino a Khartoum. Senza contare che il Nord deve già misurarsi con la crisi quasi decennale e la conseguente emergenza umanitaria in Darfur e con recenti moti di ribellione nella regione del Sud Kordofan. Infine il petrolio, primo e massimo interesse del Nord quanto del Sud: per estrarre ed esportare il greggio occorre pace. L’oro nero potrebbe rivelarsi un forte deterrente a un nuovo conflitto, com’è stato cinque anni fa un ottimo incentivo alla firma della pace. Il trattato del 2005 ha messo fine a 22 anni di guerra.
22 ANNI DI CONFLITTO
FINITO NEL 2005
Dal 1983 al 2005 l’esercito governativo e il movimento ribelle dell’Spla si sono combattuti in questi sterminati spazi fatti di boscaglia, paludi e savane. Due milioni e mezzo di morti, questa è la stima, altrettanti di sfollati e rifugiati. Una delle più sanguinose – e ignorate – guerre d’Africa. E, prima di questa guerra il Sudan ne aveva conosciuta un’altra, scoppiata all’indomani dell’indipendenza (1956) e interrotta solo da 11 anni di pace, fra il 1972 e il 1983. Gli arabi del Nord, se al tempo della colonia britannica avevano “gestito” il dominio del Sud in conto terzi, poi lo hanno fatto in prima persona, opprimendo e depredando il Sud. Questo è, in definitiva , ciò che pensa la gran parte dei sud sudanesi. A questo sono convinti di mettere fine quando infileranno la scheda nell’urna, il 9 gennaio. Esito scontato, quindi? Parrebbe di sì. La stima è che i favorevoli alla secessione possano oscillare fra l’80 e il 90 per cento, ben al di sopra del 50 stabilito come percentuale minima perché si dia vita al nuovo Stato. L’altra ipotesi, che il quorum dei votanti non sia raggiunto, sembra altrettanto remota: il Nord ha voluto un quorum alto perché la consultazione sia valida: il 60 per cento degli aventi diritto. Ma risulta che il 96 per cento circa degli elettori potenziali si sono registrati, per cui appare evidente che la voglia di voto è altissima. D’altro canto, c’è un dato recente e certo dell’orientamento dei sud sudanesi: nell’aprile 2010 si sono svolte le elezioni generali, anch’esse stabilite nel 2005 dall’accordo di pace (Comprehensive peace agreement, Cpa). Nelle regioni meridionali i consensi sono andati al 90 per cento a favore dell’Splm, l’ala politica del movimento degli ex ribelli.
La realtà di oggi, però, è di un Paese all’anno zero. Intere generazioni di sudanesi sono nate e hanno vissuto solo in tempo di guerra. Perciò l’analfabetismo è a percentuali altissime, e i dati sulla salute sono fra i peggiori del mondo. Una donna su nove muore per la gravidanza o il parto, e in media c’è un medico ogni 300 mila abitanti. “Questa è stata una caserma fino a pochi anni fa”, aggiunge Acut Acut Madhiot, il direttore della sanità dello Stato dei Laghi, davanti all’ospedale di Rumbek. “Lepriorità? Potrei riassumerle in una frase sola: garantire gli elementi essenziali per la sopravvivenza dignitosa di un essere umano”.
“Qui devi fare anche 40 o 50 chilometri a piedi per raggiungere il più vicino centro di salute”, dice Joseph Makur Garang, amministratore dell’ospedale di Yirol, capoluogo dello Stato dei Laghi. “Come fai se sei ferito o hai 39 di febbre? Pochi giorni fa sono tornato al mio villaggio, a 30 chilometri da qui. Dall’ultima volta che ci sono stato sono morte 5 donne di parto, altre 7 hanno avuto aborti spontanei, 6 bambini hanno perduto la vita per malattie facilmente curabili, come la malaria o la bronchite. Tutto questo nel giro di qualche mese. La verità è che dopo tanti anni di guerra, paura e insicurezza, i sud sudanesi hanno perduto anche l’idea del diritto ad essere curati”. Juba è tappezzata di grandi manifesti con la foto del padre della patria John Garang e la scritta The final walk to freedom. Il referendum è forse l’ultimo passo verso la libertà politica. Non certo verso tutte le altre. Lorenzo De Col -
PETROLIO Un affare miliardario da 450 mila barili al giorno
La storia recente del Sudan l’ha fatta il petrolio. Da quando il Paese ha scoperto di essere ricco di greggio sono cambiate le sorti della guerra (per un intero anno la trattativa di pace si è arenata sulla percentuale di suddivisione dei proventi delle concessioni, che alla fine sono stati divise a metà); sono mutate le alleanze internazionali (la Cina è da tempo il miglior alleato); si è trasformato il rapporto con gli altri Stati africani. Oggi il Sudan produce oltre 450 mila barili di greggio al giorno. In gran parte lo spediscono alla Cina, primo cliente del governo di Khartoum (il 6% del consumo petrolifero cinese dipende dal petrolio del Sudan), attraverso la pipeline che dalle regioni petrolifere del Centro-sud porta il petrolio a Port Sudan. Le prospettive sono di crescita, già entro il 2011, a 600-650 mila.
Insomma, il petrolio è il nodo principale. Sul piano interno, la secessione metterebbe fine all’attuale accordo di spartizione al 50% dei proventi. I pozzi resterebbero, per la gran parte al Sud (l’85% del greggio estratto viene dal territorio meridionale), il quale peraltro non ha le infrastrutture per esportarlo. Tra l’altro, una delle regioni più ricche di petrolio e del miglior petrolio, quella di Abyei, dovrà andare a sua volta alle urne – ma non ora, com’era stato stabilito, la consultazione è stata rinviata – per esprimersi su un altro referendum: la popolazione dovrà decidere se rimanere unita al Nord o al Sud. In gioco, quindi, c’è un’altra fetta importante della torta petrolifera. Il petrolio rappresenta l’80 per cento delle esportazioni e il 98 per cento delle entrate del Sud Sudan. Gli economisti prevedono una grave crisi economica per entrambi i Paesi, in caso di divisione. A meno che non venga trovata in fretta una soluzione concordata di cogestione della questione petrolifera. L. D. C.