Stefano Agnoli, Corriere della Sera 06/01/2011, 6 gennaio 2011
PROCESSO ALLA «VERDE» CHE NON SCENDE MAI - È
il tipico caso nel quale il corpo del delitto c’è ed è bene evidente (il prezzo della benzina che sale) ma non si riescono a trovare né l’arma, né un colpevole al di sopra di ogni ragionevole dubbio. I principali indagati— le compagnie petrolifere, il Fisco, i gestori dei distributori — accampano solidi alibi. E i misteri (laici) della doppia velocità con la quale si adeguano i listini di benzina e gasolio su strade e autostrade italiane continuano a rimanere senza spiegazione apparente, visto che la percezione che crescano velocemente sotto le feste e quando il prezzo del petrolio sale, e che viceversa scendano più lentamente quando il barile di greggio diminuisce non si riesce a dimostrare «scientificamente» . Solite vecchie questioni senza risposta? Sì e no, perché sul fronte del caroprezzi qualcuno con la coscienza non proprio pulita si inizia a trovare. Chi? Le Regioni. Mentre gli automobilisti e le associazioni dei consumatori alzano cori di protesta, i siti specializzati come la «Staffetta Quotidiana» e «Quotidiano Energia» scovano, ad esempio, che dal primo gennaio è entrata in vigore in Calabria un’addizionale regionale proprio sulla benzina. Nelle pieghe della manovra di finanza regionale per il 2011, pubblicata con lo spumante già in frigo tra il 29 e il 31 dicembre, si stabilisce che per consentire il rispetto degli impegni del piano di rientro del deficit sanitario la Regione impone una tassa di 2,58 centesimi sul litro di benzina, per un gettito di 10 milioni di euro l’anno. E la Calabria non è sola: un’imposta analoga, sempre dal primo gennaio, è in vigore anche in Puglia e in Abruzzo. Per Nichi Vendola si tratta di un passo indietro, visto che l’aveva abolita a fine 2009. L’addizionale regionale sulla benzina, peraltro, è e resta in vigore anche in Liguria, Marche e Campania. Insomma, anche i Governatori non esitano a comportarsi nello stesso identico modo dello Stato centrale. C’è un buco da coprire? Si tassa la benzina. Né più né meno come il Governo nazionale ha fatto con i tanti storici prelievi che costituiscono ancora parte attiva dell’accisa (l’imposta fissa) sui carburanti, e mai ritirati: dal finanziamento della guerra di Etiopia del 1935 fino alla crisi di Suez del 1956, passando per Vajont (’ 63), alluvione di Firenze (’ 66), Belice, Friuli e Irpinia (’ 68-’ 76-’ 80), guerra in Libano (’ 83), missione in Bosnia (’ 96) e contratto dei ferrofilotramvieri (2004). Di più: sono principalmente le Regioni, con le norme più recenti condannate anche dall’Antitrust, a disincentivare l’ingresso di nuovi operatori e, dunque, ad impedire la concorrenza. Le colpe locali, comunque, non bastano a dare tutte le spiegazioni. Soprattutto la risposta alla domanda di senso comune che si fanno oggi gli automobilisti: perché quando il petrolio costava 147 dollari al barile un litro di super era a 1,6 euro, mentre oggi che il petrolio è a 90 dollari la benzina ne costa 1,48? La sproporzione pare evidente, e non può essere tutta ricondotta al fatto che da luglio 2008 l’euro vale circa il 20 per cento in meno rispetto al dollaro. Anche così rimarrebbe ancora una discreta differenza da coprire. Tutta imputabile alla speculazione internazionale di quei folli periodi dell’estate 2008? Tutta riconducibile alla struttura del prezzo della benzina italiana, che vede la materia prima pesare «solo» per il 42%e la componente fiscale (accisa più Iva) per il preponderante 58%? I petrolieri, da parte loro, insistono sul fatto che il mercato del greggio e quello dei prodotti raffinati (come benzina e gasolio) non siano proprio la stessa cosa. Se si rompe una raffineria, ad esempio, il prezzo del carburante è destinato a salire perché l’offerta si riduce. Di fatto, però, secondo i dati raccolti dall’economista dell’energia Vittorio D’Ermo, il 14 luglio 2008 una tonnellata di benzina costava nel Mediterraneo circa 1.200 dollari, e la benzina 1,5 euro al litro. Il 20 dicembre scorso, a Genova, la stessa tonnellata si vendeva a 815 dollari, quasi mille dollari se si tiene conto dell’effetto del cambio con l’euro. E la benzina era comunque sopra 1,4 euro. Anche in questo caso per la disparità urgono delle spiegazioni. Senza insistere troppo, per di più, sul fatto che i prezzi dei prodotti petroliferi commercializzati in giro per il mondo costituiscono una sorta di atto di fede nelle capacità della Platts, l’agenzia di rilevazione che opera in una posizione quasi monopolistica. «Guida, rilevatore, regolatore o arbitro?» si chiedeva la «Staffetta» lo scorso maggio. Istituzio- ne centenaria (fondata nel 1909) dal 1953 la Platts fa parte del gruppo editoriale McGraw-Hill, lo stesso che possiede anche l’agenzia di rating Standard &Poor’s. Con le sue rilevazioni copre praticamente tutti i prezzi dei prodotti dell’energia. Rispettata e rispettabile, fa comunque il bello e il cattivo tempo sul fronte dei prezzi petroliferi. Ed è un colosso privato, non certo l’Istat o Eurostat. Sullo sfondo del caro benzina, poi, rimangono gli altri nodi mai veramente sciolti, quelli che contribuiscono a mantenere tra i 4 e 5 centesimi il cosiddetto «stacco» strutturale tra Italia e Europa: una rete di distribuzione frammentata, o la pigrizia nell’uso dei self-service. Ma nell’opacità diffusa le grandi compagnie prosperano. Non a caso hanno rifiutato di inserire nella riforma, come ha provato a fare il sottosegretario Stefano Saglia, l’istituzione di una sorta di «borsa» dei prodotti petroliferi, che avrebbe permesso ai gestori di approvvigionarsi al miglior prezzo possibile. E non a caso hanno in orrore l’ingresso delle grandi catene di supermercati nella distribuzione. Cioè di un osso più duro con cui avere a che fare. Uno studio dell’Istituto Bruno Leoni calcolava che se nei carburanti la grande distribuzione organizzata avesse una quota del 10 per cento, come in Germania, gli automobilisti italiani risparmierebbero 200 milioni di euro l’anno. E sarebbe un bel punto di partenza.
Stefano Agnoli