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 2011  gennaio 06 Giovedì calendario

MANICHINI, LENTI E SPECCHI: ECCO COME DIPINGEVA UN GENIO


NON è la solita mostra su Caravaggio: non c’è neppure uno dei suoi capolavori che tanto fanno entusiasmare, e sovente sono diventati autentici feticci. Li sostituiscono sculture in vetroresina, e specchi, lenti - concave e convesse - che esaltano o riducono la misura dei soggetti, ingrandimenti fotografici di dettagli delle sue opere. Perché qui non si tratta di ammirare dei dipinti diventati tra i più famosi e osannati al mondo, bensì di capire come egli li concepisse e realizzasse; di entrare, armati di spirito da ricercatori e quasi origliando di nascosto per carpirne i segreti, nella bottega di un genio, per ripetere i sostantivi che danno il titolo all’interessante mostra: Caravaggio, la bottega del genio, fino al 29 maggio a Roma, Palazzo Venezia, ideata da Rossella Vodret, soprintendente ai musei nella Capitale e grande studiosa dell’artista, e curata da Claudio Falcucci, che è un ingegnere molto attivo con allievi di un celebre studioso, Corrado Maltese (cat. “L’Erma” di Bretschneider, organizzazione Munus). La ricerca è stata operata su alcuni dipinti giovanili di Michelangelo Merisi (1571 - 1610), del “periodo romano”: anche perché dopo, si sa, la sua vita è stata una continua fuga; le fonti che la raccontano, un po’ si inaridiscono; degli studi in cui lavorava, si sa meno; e spesso doveva arrangiarsi, anche con mezzi di fortuna.
In particolare, quattro opere sono state analizzate con minuzia, fin dalla genesi: il Bacchino malato ed il San Girolamo scrivente della Galleria Borghese, la Canestra di frutta dell’Ambrosiana di Milano (era del cardinal Federico Borromeo: gliela avesse donata, o no, il collega Francesco Maria Del Monte, il primo supporter dell’autore), la Medusa degli Uffizi (che Del Monte, come il Bacco, fa eseguire per l’amico Ferdinando I de’ Medici). Sono stati ricostruiti in vetroresina, e a grandezza naturale, i modelli effigiati; e posizionati, con tutto un contorno di ritrovati tecnici per il tempo rivoluzionari, come probabilmente l’artista li ha collocati per eternarli. Di una serie di altre opere, poi, sono esposti alcuni dettagli, fortemente ingranditi in modo fotografico: per esaminarne i riflessi che, in tanti casi, “tradiscono”, o svelano, la fonte luminosa; l’origine della luce, assai strana e senza precedenti, che ha fatto subito scuola, richiamando molti artisti da tutta l’Europa, e che costituisce una tra le indubbie “cifre” del pittore. Una mostra che si aprirà a febbraio nell’Archivio di Stato di Roma, basata sullo studio degli oltre 70 documenti che del pittore sono conservati e da decenni non erano riscontrati, rivela che, proprio per avere quelle condizioni di luce da lui ritenute essenziali, nell’ultimo domicilio a Roma, a Campo Marzio vicino a Piazza Firenze, nel vicolo di San Biagio, egli non praticò un buco sul soffitto, come si è sempre detto, per la riottosità: ma per avere le condizioni di luce ritenute essenziali, e soprattutto l’altezza sufficiente a dipingere le grandi pale d’altare che in quell’anno esegue.
Che Caravaggio fosse geloso del suo dipingere, si sapeva: non permetteva a nessuno di assistere all’atto creativo, ce lo spiegano già i primi biografi. Forse aveva dei segreti? Certo, utilizza gli specchi: autori come Giovanni Baglione (1566 - 1643: coevo del nostro, e rivale in tribunale) e Giovanni Pietro Bellori (1613 - 69) dicono che all’inizio, povero in canna, non potesse pagarsi i modelli, e ritraeva se stesso, poiché non era capace di dipingere se non dal vero. «Il suo unico dipinto murale, Giove, Nettuno e Plutone che è quanto ci resta della Villa Ludovisi, ma allora apparteneva a Del Monte, ci mostra infatti tre suoi autoritratti ripresi dal basso, certamente con uno specchio ai piedi», dice Vodret. Secondo fonti secentesche dipingeva «in uno spazio buio; una tela preparata a colori scuri; il modello illuminato da un fascio di luce di solito dall’alto, e generalmente da una finestra», continua la soprintendente: da qui le famose incisioni che praticava sulla preparazione della tela ancora umida per delineare le figure, e le pennellate di biacca per definire le parti in luce. Poi, la fonte luminosa non sembra artificiale: in mostra si vedono in un paio di casi (il vaso del Ragazzo morso dal ramarro che Roberto Longhi volle per sé, ed ora è a Firenze; Maria e Maddalena che ora è a Detroit), i contorni riflessi di una finestra; «ma forse usava gli specchi per stabilizzare sul modello in posa la luce, che, durante la giornata, con il trascorrere delle ore, si modifica», afferma Falcucci. Che proiettasse sulla tela l’immagine da ritrarre è possibile.
Così, ecco un’esposizione che, altra singolarità, si visita accompagnati da qualcuno che spieghi. Il Bacchino malato è un autoritratto: un gioco di specchi racconta come Merisi potesse avere libera la mano destra (che nel dipinto regge un grappolo d’uva), appunto per lavorare. San Girolamo in vetroresina si riflette in uno specchio, e il pittore può quindi ritrarlo con condizioni di luce che, altrimenti, non lo permetterebbero. La Canestra è forse inquadrata in un foro: è una sorta di camera oscura ante litteram? E per collocare la Testa della Medusa su uno scudo ricurvo, come ancora è, che cosa di meglio se non uno specchio convesso?
Del resto, in un inventario redatto nel 1605, quando da un po’ di mesi non pagava l’affitto ed era stato denunciato, è palese che Caravaggio possedesse uno «specchio grande», e uno «scudo a specchio», con «un pugnale» ed «un paio di calzonacci verdi»; e già Baglione parla di «quadretti nello specchio ritratti». E Giovan Battista Della Porta, in un trattato apparso a Napoli nel 1558, suggerisce un modo di dipingere almeno ai meno dotati: già preconizza una camera oscura per dipingere dal vero. Autoritratti di Caravaggio sarebbero il Bacco, il Bacchino malato, perfino la Medusa. In uno spazio, appunto munito di specchi, i ragazzi delle scuole possono effigiare se stessi; ed è stato ricostruito l’ultimo studio romano di Caravaggio, con gli oggetti che sono presenti nell’inventario: se ne trovano ritratti nei dipinti più famosi della “stagione romana”. Non usa mai il disegno peparatorio: così si afferma. Però, Vodret ne ha scoperto uno sotto il volto del Ragazzo con la canestra di Galleria Borghese: «Che io sappia, è la prima volta». Ma quanto ancora c’è da scoprire nel più affascinante di tutti i pittori? Questa mostra, non facile né la “solita”, serve almeno a chiarirci qualche idea, o ci offre alcuni spunti: che sia la benvenuta.