Marino Niola, la Repubblica 6/1/2010, 6 gennaio 2010
L’INVENZIONE SOCIALE
La giovinezza è solo un´invenzione sociale. È il modo in cui ogni cultura riempie lo spazio tra l´infanzia e la maturità e ne definisce gli step essenziali, i confini che separano un´età dall´altra. Come dire che la parola giovane non significa niente di fisso e immutabile. Ci sono società dove la verde età dura lo spazio di un mattino e società, come la nostra, dove l´evergreen non è un´età ma una condizione permanente, uno stile di vita, addirittura una mentalità. Che, invece di separare le generazioni, le tiene insieme allo stato fusionale, o meglio confusionale. Mentre fino alla metà del Novecento l´adolescenza era una fase transitoria della vita, il tempo dell´attesa e dell´apprendistato. Come dice la parola stessa che deriva da adolescere – la medesima radice di adulto – e quindi indica una crescita in atto, un processo di "adultescenza". Ai giovani dunque si chiedeva di diventare grandi, posati, con la testa sulle spalle. Futura classe dirigente insomma. Ecco perché se una volta i ventenni sembravano quarantenni oggi, è il contrario, sono i padri ad avere l´aspetto e il look dei figli.
In realtà la categoria dei teenagers è figlia della civiltà dei consumi. Che, dal dopoguerra, inventa questo nome per una nuova fascia di mercato, costruendo così una tipologia sociale inedita che si è progressivamente affrancata dall´anagrafe e dalla fisiologia per diventare l´emblema inquieto della tarda modernità. Non a caso le grandi icone dello star system, dal maledetto Jim Morrison al sempreverde Mick Jagger, fino alle trasgressive Mary Quant a Jane Fonda sono tutti forever young. Emblemi di quella gioventù bruciata, tutta sesso droga e rock and roll, che per la prima volta nella storia contrapponeva apertamente la sua cultura a quella dei padri. Non più imitativa ma alternativa. Non più riproduzione ma contestazione, spesso rivoluzione.
È il Sessantotto, a braccetto con il mercato, a fare da punto di non ritorno, a cambiare per sempre l´agenda delle generazioni, a desincronizzare il timer anagrafico che fino ad allora scandiva inesorabilmente la vita delle persone. Ogni età uno scatto in avanti verso la sospirata indipendenza.
Né più né meno di quel che accadeva nella maggior parte delle società antiche e tradizionali. Che addestravano gli individui sin dalla più tenera età a reincarnare il modello genitoriale. Alcune lo facevano prolungando l´infanzia e l´adolescenza fino ai trent´anni. Come nell´antica Sparta, dove i bambini a sette anni venivano sottratti alla famiglia e crescevano con i loro brothers in arms fino ai trenta, quando diventavano soldati, come dire uomini a tutti gli effetti. Solo allora avevano il permesso di sposarsi e mettere su casa. E così pure le donne, addestrate alla guerra prima che al telaio. Viceversa a Roma si passava quasi senza soluzione di continuità dall´infanzia alla maggiore età. A sedici anni si indossava la toga virile e il tempo delle mele era bell´e finito. I maschi entravano nel mondo del lavoro e le bambine si ritrovavano matrone in quattro e quattr´otto. E senza rughe. Se a Sparta la società rallentava le trasformazioni fisiologiche, a Roma la cultura era più veloce della natura. Proprio come in quei paesi extraeuropei dove le ragazzine, varcata la soglia della pubertà, diventano donne. E non solo metaforicamente, tant´è che si sposano bambine.
Insomma più breve è la giovinezza, più profonde sono le differenze tra le generazioni e tra i generi. Più è lunga, più è leggera e unisex. A Sparta come a Manhattan.