ALESSANDRO BARBERO, La Stampa 5/1/2011, pagina 38, 5 gennaio 2011
San Martino il gran giorno di Vittorio - All’alba del 24 giugno 1859 una linea di bersaglieri avanzava cautamente dalla riva del lago di Garda verso l’entroterra
San Martino il gran giorno di Vittorio - All’alba del 24 giugno 1859 una linea di bersaglieri avanzava cautamente dalla riva del lago di Garda verso l’entroterra. Li comandava il colonnello Raffaele Cadorna, lo stesso che undici anni dopo avrebbe guidato l’esercito italiano alla presa di Roma. Formavano l’avanguardia dell’esercito piemontese, che quel giorno aveva ordine di avanzare dalla zona di Lonato e Desenzano fino a Pozzolengo, 17 km a SudEst, all’inseguimento delle retroguardie austriache in ritirata verso il Mincio. Il primo paese che incontrarono era San Martino, oggi un grumo di case nel Comune di Desenzano, sfiorato dall’autostrada Milano-Venezia; poche centinaia di metri più a Sud sorge una collinetta nera di cipressi, dove è stato eretto l’Ossario della battaglia. Appena sorpassata quella collina, i bersaglieri ebbero la sorpresa di trovarsi di fronte le masse bianche della fanteria austriaca, e il fuoco che li accolse, costringendoli a tornare rapidamente indietro, rivelò che quella non era affatto una retroguardia in fuga: l’esercito austriaco era lì in forze, e deciso a combattere. La Seconda guerra d’indipendenza era scoppiata da due mesi, e Cavour l’aveva preparata in modo che perderla fosse impossibile. La Francia di Napoleone III era più popolosa, più ricca e più moderna dell’Impero d’Austria, e col suo aiuto il risultato appariva scontato. Appena fu sicuro che l’accordo era concluso, Cavour scrisse a La Marmora, ministro della Guerra: «Prepara i cannoni, e l’anno prossimo andremo in parata a Milano, se non a Venezia». Puntualmente, all’arrivo dei francesi il comandante austriaco Gyulai si trincerò dietro il Ticino, e quando Napoleone III passò il fiume e lo batté a Magenta decise che non c’era speranza di difendere la Lombardia: perciò ripiegò dietro la linea del Mincio, dove poteva appoggiarsi alle poderose fortezze del Quadrilatero. L’8 giugno i due sovrani alleati entravano a Milano acclamati dalla folla. A questo punto il loro collega Francesco Giuseppe, che aveva appena 29 anni, decise di prendere personalmente il comando dell’esercito, e passò il Brennero per difendere quel che restava dei suoi possedimenti italiani. Valutata la situazione, stabilì di attaccare: francesi e piemontesi stavano avanzando cautamente verso Est, in un paese che non conoscevano, e il Kaiser si persuase che giocando d’anticipo era possibile batterli. Perciò ripassò il Mincio, e la mattina del 24 giugno i due grandi eserciti, forti ciascuno di oltre centomila uomini e in marcia su un fronte di parecchie decine di chilometri, si trovarono all’improvviso uno di fronte all’altro. Il campo di battaglia su cui venne decisa la Seconda guerra d’indipendenza si estendeva dal Garda fino all’alto Mantovano, su un fronte di circa 30 km. Data l’estrema dispersione delle forze, non si può parlare di una singola battaglia, ma di una sequenza confusa di scontri separati; uno di questi,passato alla storia come la battaglia di San Martino, vide impegnato l’esercito piemontese, che formava l’ala sinistra, la più vicina al Garda, dello schieramento alleato. Di fronte ai piemontesi, sulle alture di San Martino, prese rapidamente posizione l’VIII corpo austriaco, al comando del maresciallo Benedek, che giungeva con la sua sinistra fino alla Madonna della Scoperta; da lì, verso Sud, cominciava il campo di battaglia di Solferino, dove il grosso austriaco si scontrò con i francesi. L’esercito sardo comprendeva quattro divisioni di fanteria, al comando dei generali Durando, Mollard, Fanti e Cucchiari: un piemontese, un savoiardo, un modenese e un toscano, a conferma della progressiva nazionalizzazione dello Stato e dell’esercito sabaudo alla vigilia dell’Unità. In tutto c’erano 35.000 uomini e 80 cannoni: il corpo di Benedek era più debole, con forse 28.000 uomini e 50 cannoni, ma era attestato su un’ottima posizione difensiva, da dove sarebbe stato molto difficile scacciarlo. A San Martino, per la prima e unica volta, Vittorio Emanuele II si trovò a comandare da solo un esercito. Fino a quel momento la guerra era stata diretta da Napoleone III, e fu probabilmente una fortuna. Vittorio si considerava un soldato, e adorava fare la guerra: pochi anni prima aveva dichiarato alla regina Vittoria: «Io non amo fare il re, dunque, se non posso fare la guerra, mi farò frate». Cavour, però, pensava che se qualcuno poteva perdere una guerra già vinta, quello era proprio Vittorio, e gli scriveva ossessivamente da Torino ammonendolo di dare retta a quelli che se ne intendevano davvero. Il pover’uomo gli scrisse dal campo per implorarlo di lasciarlo lavorare in pace: «Mi dice che devo essere circondato da tanti genj che mi impediscano di fare delle bestialità, pare che Lei mi considera un grande asino nel mio mestiere». Ma anche l’aiutante di campo del re, generale Solaroli, ringraziava Dio che non fosse lui a comandare: «Il nostro re, all’infuori del coraggio e dell’avventatezza, non ha nulla; non ha occhio, né sangue freddo, non si ricorda mai il nome di un paese... Chi sa far la guerra è l’imperatore; fortuna per noi che abbiamo alla testa un tal uomo». Come se la cavò Vittorio il 24 giugno a San Martino? Come al solito, benissimo quanto a popolarità, maluccio quando si trattava di usare la testa. L’esercito piemontese attaccò per tutto il giorno, frontalmente, le posizioni austriache, mandando avanti i suoi battaglioni in modo caotico e scoordinato, man mano che arrivavano sul campo di battaglia. I bersaglieri duellavano con i cacciatori tirolesi fra i vigneti e i campi di grano non ancora mietuto, poi la fanteria coi suoi cappotti blu e le baionette fissate ai pesanti moschetti andava avanti in massa, in ordine chiuso, sfidando la mitraglia dei cannoni e il fuoco della fanteria croata e ungherese appostata sulle colline. Prima di arrivare in cima gli attacchi si arenavano, e bisognava far ripiegare i battaglioni provati e mandarne in linea altri freschi prima di riprovarci. Più volte i piemontesi misero piede sulle alture, solo per essere ributtati giù dai contrattacchi nemici. Il re fece quello che credeva il suo dovere, rischiando la pelle in mezzo ai suoi soldati, e coniò una frase celebre gridando, in piemontese: «Fieui, a venta pié San Martin, o i auti an fa fé San Martin a nui!». Giacché da tempo immemorabile il giorno di San Martino, in pieno autunno, coi raccolti finiti e riposti nei magazzini, è il giorno in cui si fanno i conti e scadono i contratti d’affitto, per cui «far San Martino» in piemontese vuol dire traslocare. Resta il fatto che da parte italiana nessuno provò a manovrare, per cui la battaglia risulta molto monotona da raccontare. Nel tardo pomeriggio si scatenarono violenti temporali, ma anche sotto il diluvio la fanteria piemontese continuò ad attaccare; era quasi buio quando finalmente riuscì a prendere possesso delle alture contese. Benedek, informato che più a Sud il suo imperatore era stato battuto, aveva avuto ordine di sgombrare la posizione e di seguire l’esercito sconfitto nel ripiegamento verso il Mincio. Le perdite dei piemontesi erano più del doppio di quelle nemiche, e Benedek erastato così poco battuto che dopo la guerra venne promosso al comando supremo dell’esercito asburgico; ma Vittorio aveva avuto la sua grande giornata, e bisognava pure che la gloria di Solferino fosse condivisa dai piemontesi. Perciò si decise che San Martino era stata una vittoria, e tale è rimasta; anche se oggi capita che i monumenti eretti sul campo di battaglia siano vandalizzati dai nostalgici di Francesco Giuseppe.