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 2010  dicembre 31 Venerdì calendario

I CENTO ANNI DELL’AZZURRO ITALO-SABAUDO

L’anno del centocinquantenario dell’unità d’Italia coincide con un’altra ricorrenza il cui valore simbolico per il senso dell’italianità non è stato abbastanza perlustrato. Il prossimo 6 gennaio, infatti, scoccherà il centenario della prima partita disputata dalla Nazionale di calcio indossando la maglia azzurra. Il giorno dell’Epifania del 1911, giunta alla terza partita della sua storia, la rappresentativa italiana adottò la livrea che sarebbe diventata quella definitiva, dopo aver disputato in maglia bianca le due partite dell’anno precedente: quella d’esordio, il 15 maggio 1910, vinta 6-2 contro la Nazionale francese; e la seconda, giocata undici giorni dopo a Budapest contro gli ungheresi e risoltasi con una sonora sconfitta (6-1) che ridimensionò immediatamente gli entusiasmi della prima uscita. Avversari della Nazionale italiana, quel 6 gennaio 1911, furono ancora una volta gli ungheresi per una partita che avrebbe dovuto essere una rivincita. Invece la spuntò ancora una volta l’Ungheria, con un gol segnato da Schlosser (già autore di una doppietta nella partita di Budapest) dopo 22 minuti di gioco. Ma il dato statistico non è l’elemento più significativo tramandato da quella partita alla storia. A renderla speciale fu la scelta dell’azzurro in sostituzione del bianco, adottato nelle due gare precedenti in onore della squadra che all’epoca dominava il calcio italiano: la Pro Vercelli. Il nuovo colore fu espressione d’una scelta di carattere politico, che retrospettivamente può essere giudicata come la prima operazione d’ingegneria simbolica condotta in Italia attraverso l’utilizzo dello sport. L’azzurro era infatti il colore della bandiera di casa Savoia. Il cui scudo campeggiava sul petto di coloro che da quel giorno sarebbero diventati “gli azzurri”.
Guardando alla cosa con gli occhi di adesso, le letture possibili s’assommano e molte di esse sono a rischio di risentire d’uno sfalsamento di prospettiva. Il significato assunto nell’Italia di allora dall’azzurro, e dalla sua associazione alla squadra massima espressione di ciò che stava diventando il “national pastime” italiano, rischia di essere deformato da una lettura fatta attraverso l’uso di categorie “presentiste”. Di certo, il valore evocativo dell’operazione simbolica era infinitamente minore allora di quanto possa essere adesso. Un conto era l’impatto che all’epoca poteva sortire l’associare l’azzurro di una casa regnante a una squadra sportiva che muoveva i primi passi; ben altra misura era quella scaturita, oltre ottant’anni dopo, dal definirsi azzurri in politica in associazione a una squadra che fin lì aveva vinto tre coppe del mondo. Nell’Italia d’allora l’Operazione Azzurro poteva avere una portata simbolica di medio raggio. Il calcio cominciava a essere uno sport popolare ma non ancora di massa; perché era ancora un gioco di recente innesto nelle tradizioni italiane, e soprattutto perché il tempo delle masse sarebbe giunto soltanto nel decennio successivo. Di sicuro quell’operazione rispondeva a uno sforzo complessivo di nazionalizzazione, guidata dalla casa regnante, che a cinquant’anni dall’unità d’Italia aveva raggiunto risultati ancora modesti (né di maggiormente rilevanti ne avrebbe acquisiti in seguito). Negli anni che precedevano l’esplosione del primo conflitto mondiale, la scelta d’assegnare alla rappresentativa del più celebrato sport nazionale i colori del vessillo della casa regnante anziché quelli della bandiera nazionale era operazione d’incerto ritorno simbolico. Al giorno d’oggi, appurato che essa non apportò alcun vantaggio alla casa regnante, dà corso a una delle grandi anomalie del calcio mondiale: quella che fa delle Nazionali italiane una rara eccezione per quello che riguarda la scelta del colore della divisa. Le rappresentative di questo paese sono infatti tra le poche a non portare sulle maglie traccia alcuna dei colori della bandiera nazionale. E poiché quasi nessuno sa del nesso fra il colore della livrea e la casa regnante (che nel frattempo ha cessato d’esserlo, riducendosi a una grottesca persistenza da palcoscenici sanremesi o da far west balneari), ecco che l’azzurro diventa l’involontario mezzo d’un gioco ambivalente fra appartenenza nazionale e agnosticismo patriottico. Nel senso che nel corso del tempo la maglia azzurra della Nazionale di calcio è stata l’oggetto e l’efficace metafora d’un sentimento spurio dell’appartenenza nazionale: come una sorta di parentesi in cui, durkheimianamente, si realizzava una salda ma fugace solidarietà meccanica prima di tornare all’irrealizzata solidarietà organica d’un paese che ama definirsi complesso per non raccontarsi disomogeneo. Ecco cos’è dunque l’azzurro della maglia: la zona franca d’un sentimento nazionale che stenta a definire l’oggetto, il surrogato d’un corredo simbolico patriottico mai penetrato davvero nella capillarità del quotidiano italico. Attorno a quel colore si gioca da sempre una partita anomala, durante la quale una comunità nazionale si ritrova dopo essersi cercata mai e per novanta minuti finge d’essere se stessa.
Dal 6 gennaio 1911, dunque, l’azzurro sulla maglia rimane intatto con poche modifiche o eccezioni. Ai Mondiali francesi del 1938, contro la Nazionale di casa sostenuta dagli esuli italiani antifascisti, l’Italia scende in campo in tenuta nera e vince 3-1. L’adozione di un colore di riserva, diverso dall’azzurro, si rende indispensabile perché quello dei francesi è da sempre il “bleu”. Ma la scelta del nero è una risposta di forte significato simbolico: è il colore adottato dal regime fascista, e a indossarlo è la squadra che s’appresta a bissare il successo mondiale del 1934, per affrontare l’avversaria più d’ogni altra simboleggiante l’avversione (calcistica e non) dell’opinione pubblica internazionale verso la dittatura di Mussolini. Si tratterà comunque di un caso raro, e non più ripetuto dopo la caduta del fascismo e la transizione dalla monarchia alla repubblica. Quest’ultima segna un passaggio essenziale nel disegno della maglia azzurra: con lo scudo sabaudo sostituito dal tricolore. E con questo assetto si arriva fino ai giorni nostri, giocando semmai col disegno della maglia e con le varie tonalità di azzurro. Che a volte è “azzurro tenebra”, per riprendere la definizione di Giovanni Arpino a titolo d’uno splendido romanzo; altre volte è invece azzurro morbido. Fino ad assumere tonalità stinte da pigiama, ai limiti dell’impresentabilità, come avvenne in occasione della Confederations Cup disputata in Sud Africa nel 2009; allorché l’azzardo cromatico venne spinto al massimo grado associando calzoncini e calzettoni di colore marrone. Un obbrobrio che per fortuna non è stato più riproposto. Così come mai più è stata riproposta la maglia di riserva del Mondiale 1974, quella della partita fra Italia e Haiti: bianca con banda orizzontale azzurra. E mai una traccia di tricolore, nemmeno per sbaglio. Piuttosto, un’operazione che ingloba i colori della bandiera nazionale la prova la Juventus, che nelle divise di riserva per la stagione in corso adotta la banda tricolore dentro il campo bianco. Un esperimento che forse in qualsiasi altro stato-nazione avrebbe provocato rimostranze da parte degli altri club (come può una squadra pretendere di rappresentare un paese intero adottando i colori della sua bandiera?), ma che in Italia viene notato a malapena.
Il tricolore e lo sport si guardano da lontano, e semmai si trovano uniti soltanto nella solennità dei momenti pre e post agonistici: quando si tratta di suonare gli inni nazionali e sventolare i vessilli per ragioni cerimoniali. Circostanze di pura ritualità, che durano un tempo circoscritto e immediatamente si dissolvono come un alone di fiato. In mezzo rimane l’azzurro, il colore di una passione forse anch’essa in declino, ma tuttora fortemente capace d’identificazione. Se ancora c’è un’Italia unita, o che quantomeno resiste alle spinte di divisione, essa è lì sui campi dove le divise di quel colore si muovono. Cent’anni dopo. E chissà se fra cent’anni ancora.