Anna Meldolesi, Il Riformista 31/12/2010, 31 dicembre 2010
LE MANI PULITE CHE SI PAGANO
Non ci interessa sapere che numero di scarpe portano, se assomigliano di più al padre o alla madre, se sono omosessuali o eterosessuali, come recita lo spot. Ma dovrebbe interessarci, e molto, sapere se si sono lavati per bene le mani. Parliamo dei medici e degli infermieri a cui è affidata la cura della nostra salute e soprattutto quella dei più vulnerabili: neonati e puerpere, anziani e immunodepressi. Disinfettarsi le mani per gli operatori sanitari è un dovere, e non soltanto prima di entrare in sala operatoria come ci siamo abituati a vedere in Grey’s Anatomy e nelle altre medical series. Acqua e sapone, o ancor meglio i disinfettanti a base di alcol, dovrebbero essere utilizzati anche tra una visita e l’altra. Ma non tutti lo fanno: c’è chi ha fretta, chi ha le mani screpolate, chi tende a fregarsene, chi ha imparato il mestiere da maestri che non lo facevano. Negli Stati Uniti si stima che due milioni di persone l’anno contraggano un’infezione nosocomiale. In Italia si parla di 200.000 infezioni ospedaliere evitabili.
Ovviamente non tutte le vacche sono ugualmente nere, ma i margini di miglioramento sembrano notevoli persino nei centri di eccellenza. La conferma arriva dalla clinica Mangiagalli di Milano, che come riferiva ieri il Corriere, ha registrato un calo del 30% delle infezioni nel reparto di terapia intensiva neonatale da quando ha deciso di riconoscere un incentivo economico agli infermieri che accettano di sottoporsi ad appositi controlli, tra cui una telecamera a circuito chiuso che li riprende nel momento dell’handwashing.
Leggendo questa notizia si possono avere diverse reazioni. Ovviamente c’è quella di stampo qualunquista, della serie: se bisogna pagare gli infermieri per lavarsi le mani, finiremo per premiare gli anestesisti che non invertono i tubi o gli ortopedici che non ingessano l’arto sbagliato. Tolta questa dal campo, ne restano almeno altre due. Una vocina, quella pragmatica, bisbiglia che non è bello, certo, ma l’importante è che funzioni. L’altra vocina, quella attenta ai principi, soffia sullo sdegno: i bonus in busta paga dovrebbero andare a chi eccelle, non a chi ha l’unico merito di soddisfare i requisiti minimi previsti per il proprio lavoro. E allora la ricetta della Mangiagalli è giusta o no?
La risposta è ni, anzi dipende. Potrebbe andare bene per la terapia intensiva neonatale e sarebbe interessante metterla alla prova anche con altri pazienti ad alto rischio, ma non avrebbe senso in tutti i reparti. Per la clinica milanese potrebbe anche essere una buona operazione dal punto di vista manageriale: non solo si abbatte il tasso di infezioni nosocomiali a carico della popolazione di pazienti in assoluto più fragile (i nati prematuri), ma allo stesso tempo si gratifica una categoria che è sottopagata (gli infermieri) e ci si presenta all’esterno come un centro all’avanguardia capace di offrire standard di sicurezza eccezionali. L’idea potrebbe andare bene anche per gli altri ospedali che possono permettersi di investire 200.000 euro all’anno per incentivare una “best pratice”, ma quanti sono? L’igiene delle mani non dovrebbe essere un requisito garantito da Bolzano fino a Lampedusa?
In tutti i posti in cui non c’è una telecamera a riprendere l’handwashing, la responsabilità ricade sul responsabile di reparto, che in teoria vigila sull’applicazione di apposite linee guida. Ma nei fatti solo il singolo sa in cuor suo se ha fatto o meno il proprio dovere e parlando con chi in ospedale ci lavora si scopre che i casi di negligenza sono difficilmente punibili. Eppure non nuocere è uno dei doveri elencati nel codice deontologico degli infermieri, oltre che dei medici. Sono solo belle parole? La bioetica serve a indagare i grandi temi ideologici o anche a risolvere i problemi concreti? Ripiegare sugli incentivi economici può essere considerato un utile stratagemma o una resa. Ma in ogni caso non può allontanarci dalla strada maestra: formazione, formazione, formazione.