Michele Brambilla, La Stampa 2/1/2010, 2 gennaio 2010
Sarà bene ricordare che Cesare Battisti, prima ancora che la determinazione di Lula e l’incapacità del nostro governo, deve ringraziare la consueta opera di disinformatija fatta partire in suo soccorso da un mondo intellettuale ancora prigioniero dei logori luoghi comuni degli Anni Settanta
Sarà bene ricordare che Cesare Battisti, prima ancora che la determinazione di Lula e l’incapacità del nostro governo, deve ringraziare la consueta opera di disinformatija fatta partire in suo soccorso da un mondo intellettuale ancora prigioniero dei logori luoghi comuni degli Anni Settanta. Non sto parlando dell’appoggio di cui Battisti ha goduto in Francia: la protezione offertagli dalla solita Gauche caviar è giunta anch’essa in seconda battuta, dopo che il tam tam era partito nel nostro Paese. Nel 2004 furono in millecinquecento – in soli sei giorni – a firmare l’appello, apparso sulla rivista on line Carmilla, che definiva l’arresto di Battisti in Francia «uno scandalo giuridico e umano». C’erano fra le altre le firme degli scrittori Vittorio Evangelisti, Tiziano Scarpa, Massimo Carlotto, Nanni Balestrini, Laura Grimaldi, Giuseppe Genna, Stefano Tassinari; quella del vignettista Vauro; quelle dei parlamentari Paolo Cento e Mauro Bulgarelli dei Verdi e di Giovanni Russo Spena e Graziella Mascia di Rifondazione comunista; c’erano le firme di professori universitari, di giornalisti, e così via. Un elenco che rapidamente si allungò fino a toccare quota duemilacinquecento firme. Nell’appello Battisti veniva definito «un uomo arguto, profondo, anticonformista nel rimettere in gioco se stesso e la storia che ha vissuto». Si precisava poi che «la sua vita in Francia è stata modesta, piena di difficoltà e sacrifici, retta da una eccezionale forza intellettuale». Tutte considerazioni che sembrano prescindere dal punto di partenza: quest’uomo ha o non ha ucciso quattro persone? Eppure, il termine «un delitto» nell’appello veniva usato solo per definire l’arresto avvenuto in Francia. Tanta solidarietà andava di pari passo, come detto, all’opera di disinformatija che quasi sempre caratterizza le campagne tese a delegittimare le sentenze della magistratura e a legittimare i colpevoli. S’è detto – e questo è ahimè diventato un fatto acclarato anche in Francia e in Brasile – che Cesare Battisti non è stato giudicato con tutte le garanzie di legge; che contro di lui si sono accaniti tribunali emergenziali parafascisti. Bene, basterebbe conoscere i fatti per sapere che sono stati più di settanta – nel corso di ben nove processi, cominciati nel 1981 e terminati nel 1993 – i magistrati che si sono occupati di Battisti: tutti «parafascisti»? S’è detto poi che il pentito che accusava il nostro eroe è stato ricompensato dalla giustizia con un trattamento di favore: ma anche qui i fatti ci dicono che il pentito in questione, Pietro Mutti, ha scontato otto anni di carcere, contro gli zero di Battisti; e i fatti dicono pure che a sostenere le accuse c’erano pure altri ex terroristi e diversi testimoni, non solo Mutti. Il Brasile non ci ha restituito questo ex «guerrigliero comunista» perché crede che nel nostro Paese gli ex «guerriglieri comunisti», siano attesi da tremende vendette, al punto che il presidente Lula non ha nascosto di temere per l’incolumità fisica di Battisti. Sono timori e pregiudizi forse figli anche della storia terribile che il Brasile ha patito. Ma certamente a creare simili false paure ha contribuito un nostro milieu che da anni parla di una «giustizia punitiva». I familiari delle vittime del terrorismo potrebbero obiettare qualcosa. Ad esempio – anche qui, i fatti superano ogni teoria – potrebbero ricordare che tutti i complici dei quattro omicidi attribuiti a Battisti sono già liberi da un pezzo. E ad esempio che uno dei principali sostenitori della causa di Battisti è un tale Paolo Persichetti, ex brigatista, anch’egli fuggito in Francia ed estradato in Italia nel 2002. Bene: Persichetti, condannato a 22 anni e 6 mesi per l’omicidio del generale Licio Giorgieri, dal 2009 (cioè sette anni dopo il suo ingresso in carcere) ha ottenuto la semilibertà e lavora, di giorno, a «Liberazione». Giustizia punitiva, quella italiana? Si dirà che la mobilitazione pro-Battisti non ha toccato le punte, né la coralità, di quelle analoghe degli Anni Settanta. E’ vero. Ma il caso-Battisti è comunque partito tutto da lì. Se prima in Francia e poi in Brasile hanno potuto parlare di «magistratura fascista» e «berlusconizzata» (forse ignorando i rapporti tra magistratura e Berlusconi) è perché qualcuno qui da noi glielo ha fatto credere. Chi invoca clemenza per gli ex brigatisti ricorda sempre che in quegli anni in Italia ci furono le stragi impunite, le deviazioni dei servizi segreti, la P2. E’ vero pure questo. Ma la battaglia civile va fatta per alzare il velo sullo stragismo e per individuarne i responsabili: non per chiedere una mitica e onnicomprensiva «soluzione politica» in nome di una «guerra civile» che non c’è mai stata. Ma quale guerra civile. C’erano solo la democrazia da una parte, e gli assassini dall’altra.