Lorenzo Salvia, Corriere della Sera 04/01/2011, 4 gennaio 2011
BOOM DEL CINESE CORSI IN CENTO ISTITUTI «SERVE AGLI AFFARI» —
Forse è troppo complicata per diventare la lingua del futuro, prima di arrivare a scrivere in scioltezza persino i cinesi faticano nove anni. Ma unisce il fascino di una cultura antica ai vantaggi di una potenza economica pronta a diventare la potenza economica. Ed ecco che il cinese si fa largo nelle scuole italiane. «Sono un centinaio gli istituti che offrono questa possibilità nel nostro Paese» dice il professor Federico Masini, già preside della facoltà di studi orientali della Sapienza di Roma, tra i più grandi esperti in Italia.
Una novità degli ultimi anni, nata in forma spontanea e messa a regime solo pochi mesi fa con il consueto ritardo rispetto ad altri Paesi europei: in Francia il cinese è materia ufficiale dal 1973, in Gran Bretagna addirittura dal 1952. Ma la crescita c’è e per misurarla basta scorrere le tabelle dell’Ufficio scolastico della Lombardia, l’unica Regione a monitorare costantemente la questione. «Per quest’anno— spiega Gisella Langé, responsabile dell’area multilinguismo — sono stati attivati 57 corsi in 18 istituti, per un totale di 1.500 studenti» . Solo nel 2003 eravamo a 17 corsi, un terzo. L’anno dopo siamo saliti a 31, poi a 43, poi a 49.
Per le elementari e le medie c’è solo qualche sperimentazione, come all’Altiero Spinelli di Torino o al Convitto Foscarini di Venezia: corsi volontari fuori dall’orario scolastico, niente voto che fa media. Il cinese si studia sul serio alle superiori, soprattutto nei licei linguistici, dove da quest’anno può essere materia curriculare, cioè fare media come l’italiano o la matematica. In realtà qualcuno si era mosso prima, ed è una storia che fa capire quanto sia faticoso adattare le nostre scuole al mondo che cambia. Nel 2005 il liceo Pigafetta di Vicenza è stata la prima scuola pubblica a offrire un corso di mandarino: 20 studenti che adesso sono diventati 50. Già allora trovare i soldi non era facile: «Mi aiutò il genitore di un nostro studente,— racconta il preside Giorgio Corà — aveva un’impresa di tubature che lavorava in tutto il mondo, diceva che quella era lingua del futuro e le spese le pagò lui» . Ma poco tempo dopo il mecenate morì. E a quel punto il Pigafetta decise di forzare la mano alla burocrazia: «Coperto dall’ufficio scolastico regionale— racconta ancora il preside— sono riuscito ad infilare nell’organico un professore di cinese che sostituiva uno di un’altra lingua» . Per fortuna con la riforma dei licei, a regime da quest’anno, il trucco non serve più: il cinese può essere materia con voto in pagella, ed è questo il vero motivo del boom.
L’esempio più avanzato è quello del convitto nazionale di Roma. Qui il liceo scientifico internazionale ha nove ore di cinese alla settimana. «Forse le sembrerò un esaltato — dice il rettore Emilio Fatovic — ma il nostro obiettivo è formare ragazzi che portino la cultura europea in Cina» . Per il momento il vento soffia in direzione opposta: gli insegnanti di mandarino del convitto arrivano direttamente dalla Cina e da Pechino vengono pagati. È la stessa scelta fatta in passato dagli Stati Uniti: esportare la propria cultura per preparare la strada a esportare tutto il resto. Ma se le cose stanno davvero così a noi studiare il cinese serve oppure no? «Imparare un’altra lingua è sempre una palestra per il cervello» dice Andrea Moro, professore di linguistica e allievo di Noam Chomsky. «Il cinese può essere una palestra migliore perché usa gli ideogrammi e non le lettere dell’alfabeto e quindi è ancora più distante dalla nostra lingua» . Conosci l’altro per conoscere te stesso? «Esatto. Non so se il cinese sarà utile per concludere affari in Cina. Può esserlo per concludere affari in Italia» .
Lorenzo Salvia